Lavoro autonomo e Fisco, la lettera di un iscritto
15 Marzo 2009 Fisco, Vita da freelance
Riceviamo e ripubblichiamo volentieri una lettera di un iscritto ad ACTA sul tema del Fisco e del suo enorme peso che grava sul lavoro professionale autonomo.
Ciao,
vorrei segnalarvi una lettera di Victor Uckmar – noto fiscalista di Genova – pubblicata questa mattina sul Corriere della Sera nella rubrica “Interventi e Repliche“. In tema di “Evasione e demagogia fiscale”, Uckmar rileva la sperequazione dell’IRPEF e sottolinea che “i soli redditi soggetti a dichiarazione e pagamento sono i redditi di lavoro: e per quelli di lavoro autonomo, soggetti anche all’IRAP, il prelievo supera il 50% del reddito fiscale, che spesso è superiore a quello effettivo per l’indetraibilità di molti costi e spese di produzione. E nell’ambito del lavoro autonomo di certo non sfugge quello soggetto a ritenuta d’acconto alla fonte.”
Ora se all’IRPEF, si aggiunge il 25,72% (destinato a diventare il 33%), si può tranquillamente concludere che il lavoratore autonomo può arrivare a pagare anche più del 70% di tasse (Perché quel 33% di accantonamento INPS ti sarà comunque tassato in futuro, quando riceverai la pensione).
A me sembra che sia arrivato il momento di definire una volta per tutte chi è il lavoratore autonomo, perché il suo ruolo è fondamentale per l’economia e perché è interessato a un fisco equo e a una pubblica amministrazione efficiente.
Una volta costruita l’identità, si possono studiare le dinamiche economiche che regolano l’opera dell’autonomo. Non è un dipendente e non è un’impresa, ma ha le caratteristiche di entrambi e ha le esigenze di entrambi. Prima si sposta il discorso su questi aspetti, prima si prende coscienza e prima si può parlare con gli interlocutori in maniera compiuta, trattando su aspetti che necessariamente abbracceranno tutti i campi dell’attività economica (E’ di queste ore la richiesta di soldi veri per le imprese. E a noi? In caso di fallimento di un cliente, come ci insinuiamo noi nel passivo? Come fornitori, che sono soddisfatti dopo i dipendenti, o siamo alla stessa stregua dei dipendenti visto che non siamo imprese e, diversamente da loro, non ci possiamo scaricare le perdite?).
Questa è la strada.
Silvestro.
3 Commenti
Adriano Micale
ReplyConcordo pienamente con l’articolo anche se questa sensazione credo sia oramai ben nota ai lavoratori autonomi.
Giulio Marini
ReplyCaro Silvestro,
il problema che tu poni è uno di quelli che Acta mi pare affronta da sempre e la precisione dei tuoi dati sulla pressione fiscale non fa che scontrarci con la dura e deprimente realtà.
Il mio punto di vista come parte in causa (parte “lesa”…) e come aspirante studioso dell’argomento è il seguente:
MENO SI E’ RAPPRESENTATI DA ASSOCIAZIONI CATEGORIALI, PIU’ SI SARA’ DANNEGGIATI.
In pratica rovescio il discorso e non parto dal modo nel quale siamo danneggiati, ma vado a quelle che ritengo essere le cause. Bisogna capire le cause, prima ancora di descrivere il modo contingente e mutevole attraverso il quale trova forma concreta (in questo caso fiscale e di mancanza di welfare) l’esercizio di un potere che ci vede parte lesa. (per una parte che esercita il potere, un’altra la subisce: è “matematico”). Essere la parte svantaggiata per noi consiste nel finanziare indirettamente vantaggi altrui ormai insostenibili e non difendibili come ad esempio la possibilità di evadere, farsi ri-finanziare la propria cassa (si veda quella dei giornalisti), avere la cassa integrazione guadagni e sussidi di disoccupazione solamente se lavoratori di un certo tipo ecc..
La questione infatti è più o meno questa: lo Stato Italiano non è molto bravo a garantire i diritti e ha da sempre avuto bisogno di altri attori che lo sussidiassero e/o lo supplissero: coloro che lo sussidiano in ciò (le “parti sociali”) sono forze sociali “interessate” che mai opereranno in modo neutrale e a favore di gruppi e soggetti che non rappresentano. Ne consegue che, come singolo cittadino-lavoratore (in Italia il cittadino sovrano è latore di diritti in quanto lavoratore, non scordiamocelo), se poco poco sei scoperto ai tavoli che contano ti ritroverai a finanziare i diritti altrui (per via fiscale, perché no!). È un gioco a somma zero, o, se vuoi, una coperta corta: se vi sono dei diritti assistenziali e previdenziali per taluni, e contemporaneamente non tutti sono tutelati da una qualche parte sociale, chi ne è fuori non avrà quasi niente e per giunta pagherà.
Finché il Paese era in crescita e vi era un dualismo fra “garantiti paganti” e “non garantiti evasori” il sistema si reggeva. Quando invece ha cominciato a essere massive la presenza di nuovi lavoratori, professionisti ad alta professionalità che però non hanno né albi, né sigle sindacali, né rami di Confindustria o altri soggetti (in pratica “noi”), sono cominciati i guai (per noi…). Guai per noi, che finanziamo il welfare decotto e ormai ricco di sole asimmetrie derivanti dall’assetto istituzionale della Prima Repubblica. E infatti è proprio qui che si inserisce la Riforma Dini e l’idea – tecnicamente intelligente – di scaricare su soggetti privi di rappresentanza, deboli contrattualmente (si pensi ai co.co.co/co.co.pro. e altre figure) il riassetto della finanza pubblica. [era comunque notizia di giorni fa che i conti dell’Inps stanno messi bene, in attivo… ma grazie a chi?! Indovinate…]
Non credo che esistano altre spiegazioni. Nessuno vuole danneggiare le P.I. non ordinizie per cattiveria, ma il punto è che finora è valsa la seguente logica: se sei dipendente paghi tutte le tasse e al massimo fai un secondo lavoro in nero; se sei indipendente avrai poco, ma paghi poco anche perché tanto evaderai il fisco (se sei imprenditore piccolo, medio o grande è già un’altra questione).
La specie alla quale apparteniamo noi (UN SOTTOINSIEME DEI CONTRIBUENTI ALLA GESTIONE SEPARATA INPS) non è né evasore (e sappiamo ormai perfettamente perché), né tutelata da sindacato, ordini o altre associazioni. Si badi che la rappresentanza dei lavoratori a cui mi riferisco non è un’associazione come Acta, ma enti più grandi, di livello nazionale che possono sedersi ai tavoli tecnici esprimendo un peso elettorale, prima ancora che una fetta di PIL rilevante. Associazioni di categoria, o più propriamente parti sociali. Per avere qualcosa in termini di servizi e/o di alleggerimento della pressione fiscale – a prescindere se sia giusto o un diritto – bisogna organizzare prima una massa critica. Ogni argomentazione di tipo “tecnico” su ciò che è giusto o ingiusto non può che essere derubricato come sforzo apprezzabile e magari anche presa_d’atto_che è_così, senza però la possibilità di vedersi cambiare la situazione. In altre parole: se si persegue soltanto una strada di analisi di dati “oggettivi”, proprio come quelli che riporti te, non si va da nessuna parte. Se invece si riesce a organizzare una mole di iscritti che faccia peso specifico, allora si può fare pressione, lobbying. Sia chiaro che qui per lobby intento la facoltà di influire sul legislatore e i tecnici, senza alcuna componente valoriale (giusto o sbagliato, etico o non etico). A quel punto i documenti tecnici come il tuo, anche solo poco più sviluppato, diventano utili.
L’assetto istituzionale, di welfare e culturale italiano è tale per cui o si ragiona per parti che rivendicano qualcosa a loro favore, o si fa soltanto un’operazione intellettualmente onesta, ma inefficace, quindi inutile alla causa di cambiare qualcosa. Il fatto che poi la posizione di Acta abbia componenti universalistiche e di profondo rinnovamento circa alcune prassi in termini di welfare è un’altra questione: quest ultimo punto è ciò che chiedi, ma non la forza con la quale ti presenti per cambiare qualcosa.
Ciò a cui stiamo assistendo con l’operazione CNA – In proprio & Assoprofessioni [si tratta di una proposta di scissione all’interno della Gestione Separata Inps dei professionisti, le cui istanze solo in parte residuale ricalcano quelle di Acta] infatti è la ri-proposizione della vecchia logica consociativa secondo la quale si cerca di usare il proprio peso di rappresentanza di molti lavoratori ( = un certo target sufficientemente omogeneo di elettori quantificabili in modo più o meno preciso) al fine di crearsi una nicchia che genera meccanismi di potere (poltrone, enti semi-pubblici, parastatali, commissioni ecc.). Ora, a prescindere dal fatto che si possa ritenere questa logica superata, sgradevole, non-etica, ecc., questo è, e così gira il Belpaese. Anche nel caso in cui volessimo in quanto Acta – come suppongo voglia Acta e magari come cittadini e lavoratori contribuenti a sta benedetta Gestione Separata Inps – cambiare alcuni meccanismi del comparto pubblico a favore di equità, trasparenza, efficienza e diritti per tutti senza particolarismi, non vedo altra strada che quella di creare un’associazione forte e coesa in ciò che chiede. A quel punto bisogna armarsi anche di analisi puntuali, ma diviene quasi accessorio: un politico guarderà sempre ai voti che porta un’operazione e quante persone stanno dietro un’associazione. Il merito, il quid, delle sue politiche sono accessorie: il suo lavoro di fatto consiste nell’accrescere il suo potere e quello della sua fazione, mica risolvere i problemi! Sarebbe come dire che un’azienda vive per produrre quello che produce. È sbagliato: vive per generare profitti e ciò che produce è – semplificando – un dettaglio tecnico.
I principali problemi:
1) l’eterogeneità dei contribuenti. “Noi” non siamo omogenei per professione, reddito, tipologia di clienti, età, genere, presenza nel territorio nazionale (sì, è vero: aree metropolitane, ma siamo distanti dalla vecchia classe operaia o contadina di un tempo). A differenza di notai, giornalisti e metalmeccanici, non c’è niente di palese che ci accomuni.
2) l’ambiguità ideologica. “Noi” apparteniamo, più di altre, alla categoria della post-politica: ci interessa il funzionamento del sistema, ma non vi è appartenenza pregiudiziale a uno schieramento o a un altro.
3) la difficoltà di organizzare servizi agli iscritti al fine di fare proselitismo. L’organizzazione di servizi è la motivazione principale che porta ad avere tanti iscritti e fare un salto di qualità: da 1000 iscritti pervasi da buoni propositi, a 10.000 iscritti che non approfondiscono e si curano più di tanto della questione, ma si iscrivono perché sanno che quanto meno hanno una convenienza anche materiale e contingente a tesserarsi.
Possiamo pensare tuttavia che, per quanto l’Italia rimarrà l’Italia e certi tratti non si cambiano, anche la classe operaia non è nata col sindacato già pronto e operante nei tavoli dei Governi. Tutt’altro! Allo stesso modo, pur con meccanismi e percorsi diversi e propri, “noi” possiamo creare una rappresentanza che sia fatta su misura per le nostre caratteristiche: né sindacato di lavoratori, né associazioni di categoria o albi professionali.
Anna Soru
Replycaro Giulio,
condivido la tua analisi e l’importanza che dai alla capacità di creare una rappresentanza, ma sono più ottimista (se non lo fossi, a ormai quasi 5 anni dalla nascita di acta, avrei già mollato da un pezzo) e non sono d’accordo sul ruolo basilare dei servizi.
La mia idea (illusione??) è che si possa cercare di crescere anche senza i servizi, facendo leva su azioni che avvantaggino tutto il nostro mondo di riferimento e non solo i soci.
Penso ad esempio che se la proposta di riforma della Gestione Separata passasse (per inciso nella parte introduttiva della legge Ichino è stato inserito un riferimento ad Acta) potrebbe favorire la crescita dell’associazione più che la stipula di tante convenzioni e l’offerta di servizi.
Questa modalità di azione, non strettamente orientata ai soci, ma al mondo di tutti coloro che vivono la nostra condizione lavorativa, la stiamo sostenendo (senza particolari difficoltà, in quanto per lo più condivisa) anche entro l’attività de La Rete di associazioni che abbiamo promosso.
In ogni caso la crescita basata sui servizi è ciò che ha caratterizzato la storia degli ultimi decenni del mondo delle rappresentanze, tutte attualmente in crisi: la loro strutturazione, necessaria per offrire servizi e garantire un’azione capillare, ha determinato un’evoluzione delle loro attività funzionale al mantenimento della struttura più che alla tutela delle esigenze di coloro che rappresentano, determinandone il progressivo allontanamento dalla loro base di riferimento.
Con questo non intendo disconoscere l’importanza di servizi e convenzioni (ben vengano iniziative in questo senso), ma non credo che debbano rappresentare l’ambito in cui investire prioritariamente le nostre energie.
ciao