Incoraggiare l'autonomia del lavoratore: per l'Europa qui si gioca il futuro
2 Dicembre 2010 Dal mondo, Diritti, Lavoro
Viviamo giorni difficili. Basta dire che rifiuti l’etichetta di “precario” per essere additato come uno che ha scelto di lavorare come autonomo (fortunato, arrivista, individualista, frutto tardivo degli anni ottanta?) in contrapposizione con chi, invece, “è stato costretto ad aprire la Partita IVA” (precario, sfruttato, operaio della conoscenza, nuovo Cipputi…).
A parte il fatto che devo ancora capire come si fa oggi a costringere qualcuno che è già cittadino italiano ad accettare un lavoro che non è conveniente, forse la fortuna che ho avuto è stata di dover rifiutare più di una volta dei lavori che non mi permettevano di pagare nemmeno affitto e bollette.
Un’amica del sindacato (non dirò quale) in un recente incontro pubblico, ha detto che molte volte il lavoratore potrebbe anche mettere sotto pressione l’azienda per farsi assumere, ma poi non lo fa “perché così può farsi le vacanze che vuole e quando vuole… ma se l’azienda va in crisi è il primo a restare senza lavoro”.
L’esempio era riferito a un informatico che lavora otto ore al giorno in un’unica organizzazione.
Per me invece, potrebbe essere proprio il nostro ragazzo “incosciente” quello più previdente: come ben sa chi lavora in aziende con meno di 15 dipendenti o anche in grandi aziende in crisi, nulla assicura che il posto che il posto fisso di oggi possa continuare a esserlo anche domani e il rischio è quello di ritrovarsi a 40, 50, 60 anni senza un’organizzazione di appartenenza e con una mentalità “dipendente”, cioè senza nessuna abitudine a confrontarsi con il mercato e a dare valore alle proprie competenze.
In un sistema di “flessibilità sostenibile” il nostro giovane e incosciente informatico non dovrebbe pensare solo alle vacanze, ma dovrebbe assumere su di sé l’onere di sviluppare un nuovo tipo di pre-videnza: tenere d’occhio l’evoluzione del mercato, investire tempo per l’auto-aggiornamento e la valorizzazione delle competenze già acquisite, tenere buoni rapporti con tutti quelli con cui viene in contatto con la sua attività perché, un domani, potrebbero avere bisogno di lui.
Nell’attuale clima di terrore e contrapposizione che agita le attuali rappresentazioni del lavoro e del mercato, può sembrare utopico pensare a un lavoratore in grado di muoversi in relativa autonomia sul mercato, con una capacità negoziale che deriva dalle sue competenze e dalle soluzioni che ha saputo proporre ai suoi clienti/committenti.
Eppure è un’utopia che è stata ratificata come principale direzione di sviluppo dalle nazioni aderenti alla Comunità Europea.
La Conferenza di Lisbona sancisce la “mobilità” come principio guida per il mercato del lavoro. In base a questo principio la sicurezza del lavoratore non dipende più dall’appartenenza a un’unica organizzazione, ma dalla sua “occupabilità” (employability) – cioè dalla richiesta che può avere – sul mercato.
Le aziende, le politiche pubbliche e gli stessi lavoratori, sono chiamati a sostenere, valutare e valorizzare ciò che rende produttivo il lavoro: l’apprendimento continuo e l’acquisizione di competenze in linea con le richieste del mercato diventano gli elementi su cui progettare il futuro, la sicurezza per i lavoratori e la pace sociale per tutti.
Nascono gli strumenti innovativi del bilancio di competenze, colloqui di orientamento e percorsi formativi che devono permettere un costante aggiornamento delle competenze. È la nascita delle politiche attive del lavoro.
Da oltre vent’anni gli enormi flussi di denaro con cui l’Unione Europea finanzia le attività a sostegno della mobilità hanno un indirizzo chiaro e preciso: aumentare la capacità del cittadino-lavoratore di muoversi con maggiore autonomia e intraprendenza sul mercato del lavoro. I servizi per il lavoro devono aiutare a comprendere quando è il momento di cambiare attività, di acquisire nuove competenze, progettare e avviare un’attività autonoma o imprenditoriale più corrispondente ai propri interessi, vincoli, risorse o richieste del mercato.
Diventare self-employer o freeter (ovvero free Arbeiter, vedi il bell’articolo di Elsa Betella sul sito di ACTA) è stato in questi anni non soltanto una scelta individuale, ma un’adesione alle politiche europee in corrispondenza con le trasformazioni del sistema economico produttivo.
Nell’agosto 2010 un’inchiesta di Antonio Fraschilla e Davide Carlucci denuncia il grande fallimento della formazione finanziata: fabbrica di precari e disoccupati cronici che ogni anno, a fronte dei 20 miliardi spesi (quasi una finanziaria) produce pochissimi risultati.
In realtà la Lombardia è una delle regioni dove il sistema ha funzionato meglio, ma anche qui continua a essere preponderante una rappresentazione basata sull’opposizione tra lavoro e capitale. I servizi sono indirizzati in misura preponderante a chi ha perso il lavoro, più che a garantire l’occupabilità e prevenire la disoccupazione (e questo anche in tempi pre-crisi). L’offerta formativa è appiattita verso il basso, le competenze perdono centralità. I professionisti autonomi sono stati esclusi da questo sistema sia come fruitori sia come attori.
Non importa che si tratti di premeditazione o incapacità: quei 20 miliardi spesi ogni anno in Italia sono risorse sottratte al futuro dei lavoratori e delle imprese che non hanno la forza e la disponibilità economica per mantenere un proprio ufficio formazione e sviluppo (a meno che non si voglia mandare tutti a lavorare nelle aziende con più di 500 dipendenti).
Se bisogna scoraggiare il ricorso alla flessibilità “cattiva” (io direi semplicemente agli abusi) è altrettanto importante incoraggiare un sistema di flessibilità sostenibile.
In un mercato del lavoro in cui si andrà in pensione a oltre 66 anni e dove le aziende tendono a non riassumere gli over 40, la mancata soluzione di questo problema, rischia di trasformarsi in disastro sociale.