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Lo stesso lavoro per 35 anni? Impossibile. Occorre pensare una flessibilità sostenibile

9 Dicembre 2010 Diritti, Formazione, Lavoro

Molti di noi hanno problemi a pagare l’anticipo (basato sul reddito presunto, ma tanti hanno avuto un netto calo rispetto al 2009). In pratica, succede che se uno deve pagare, poniamo, un anticipo di 4.000 euro, avendo guadagnato meno, potrebbe in realtà pagarne 2.000.

Se comunque non paga, il costo per il ritardato pagamento è intorno al 30% (così mi dice il commercialista), quindi ben superiore a un normale interesse sul capitale. Si tratta di una sanzione. In altre parole il lavoratore è multato per aver guadagnato meno, invece di accedere a degli ammortizzatori (ma già pagare i soli interessi sarebbe una cosa più decente). Nei prossimi mesi vedremo cosa succederà con gli studi di settore.

Uno dei temi su cui stiamo discutendo è quello di una “flessibilità sostenibile”: la pensione a 66 anni sarà una vera rivoluzione e la questione sociale del futuro. Si tratterà di rendere produttivi e appetibili dei lavoratori fino a 50-60 anni. Attualmente intorno ai 55 il lavoratore comincia a fare il conto di quanto gli manca, diventa inutile farlo partecipare all’aggiornamento e alla formazione, gli scatti di carriera sono pensati in funzione di comodi ruoli di parcheggio in attesa della fuoriuscita.

Insomma siamo in un mercato dove si parla di over40 e over50. E si torna a parlare di posto fisso come possibilità migliore o unica, ma come si fa a pensare che una persona possa fare lo stesso lavoro a 25, 45, 65 anni?

Secondo me bisognerebbe ragionare in termini di mercato e di mobilità. Un muratore fa il mestiere dai 20 ai 40 anni, poi, se vuole, viene aiutato a studiare e dopo i 40 fa l’agente di commercio di prodotti per l’edilizia. Un lavoratore autonomo a 20 anni, professionista fino ai 40-45, può anche sviluppare una attività di impresa: questo vorrebbe dire anche sviluppare la capacità di passare il “mestiere” ai colleghi più giovani e dedicarsi a 60 anni a curare le relazioni, le strategie.

In altre parole la sfida del futuro sarà, secondo me, pensare alla possibilità di percorsi misti dipendente-autonomo-imprenditore, dove i passaggi non sono obbligati, ma sostenuti a seconda delle opportunità che si aprono. Continuità fra lavoro dipendente e impresa. Attenzione: i sindacati dicono che vogliono rappresentare gli autonomi, ma se un autonomo “assume” un collega (nel mio linguaggio: passo del lavoro a un collega) diventa “controparte”…

La vecchia opposizione tra lavoro e capitale si vede dall’attuale assetto del sistema fiscale: fino a 30.000 euro sei avvantaggiato (regime de minimis), così come per i primi anni di attività. Se invece dò lavoro a un collega, devo pagare l’IRAP (4,25%), oltre i 30.000 euro, per guadagnare il doppio del reddito netto, devo arrivare a 80.000 euro. Posso lavorare nei progetti finanziati della PA come singolo professionista, ma non con un mio marchio.

Non ci sono misure che favoriscano la crescita. Ma così l’effetto è quello di “favorire” la creazione di una massa di lavoratori che non evolvono in impresa o in rete, con redditi bassi (perché per passare dai 30.000 agli 80.000 devo avere la capacità di investire tempo e denaro), e che hanno ancora davanti 15-16 anni di lavoro.

Si capisce che per percorsi di questo tipo bisogna ripensare i meccanismi di indirizzo e di governo dei servizi per il lavoro e della formazione. Ma su questo faccio una domanda: come si fa a pensare a una politica che valorizzi la flessibilità (meriti, competenze) e sostenga la mobilità, se dall’altra parte i sindacati, all’interno del lavoro dipendente, si oppongono a qualsiasi politica che vada a valutare e premiare la produttività, le competenze e i meriti?

Alfonso Miceli

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3 Commenti

  1. Giusi

    Reply

    Secondo me è ovvio, quasi scontato, che il sistema è così volutamente, per NON far crescere e lasciare nella quasi indigenza soprattutto chi “osa” cercare di lavorare da libero professionista.

    10 Dic 2010
  2. Mario Panzeri

    Reply

    Mi permetto di osservare che il regime dei minimi può essere da un lato molto favorevole al contribuente, se questo ha la possibilità/volontà di evadere, perché tale regime prevede, oltre all’esclusione dall’IRAP (peraltro possibile anche in presenza di ricavi superiori ai 30.000 euro) e all’aliquota IRPEF al 20%, l’esclusione dagli studi di settore; dall’altro lato assai gravoso, perché non consente di effettuare detrazioni e deduzioni relative a costi non inerenti l’attività professionale e dei contributi previdenziali, quali, per esempio, spese mediche, premi assicurativi, versamenti a fondi pensione, interessi su mutui, spese di ristrutturazione. Costi, questi ultimi, che possono essere nulli ma anche elevatissimi (soprattutto in proporzione al modesto limite dei 30.000 euro di ricavi): nel qual caso la loro indetraibilità e indeducibilità è tollerabile (o addirittura quasi irrilevante) soltanto se elevatissimo è il reddito eventualmente evaso. Credo quindi si possa affermare che si tratta di un regime profondamente iniquo.

    10 Dic 2010
  3. Giacomo

    Reply

    Siamo fottuti, a meno che non ci prendiamo una poltrona decente: in Italia una volta che la raggiungi non te la toglie nessuno, nemmeno se non fai una mazza.

    14 Dic 2010

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