Diritto d'autore: nessun contributo e nessuna pensione. E' ciò che tutti vorremmo?
17 Febbraio 2011 Fisco, Previdenza
L’abbiamo spesso pensato e dichiarato: sarebbe molto meglio tenerci i soldi che versiamo all’INPS, che comunque non ci garantiranno una pensione decente.
Alcuni di noi hanno questa possibilità! Sono coloro che svolgono attività dell’ingegno di carattere creativo rientranti nel regime del diritto d’autore. Ma sembra che non sempre sia un reale vantaggio.
Un interessante e accurato articolo pubblicato da The Checklist for freelancers, scritto da Sandra Biondo, mette in evidenza che ci sono casi in cui sarebbe più conveniente pagare l’INPS (potete trovare informazioni su Sandra nel suo blog Brasil meu amor).
L’articolo ci ricorda innanzitutto che il regime fiscale per chi lavora in diritto d’autore prevede
una deduzione forfetaria del 25% sull’imponibile lordo, che passa al 40% se il traduttore, nell’anno di imposta, non ha ancora compiuto 35 anni. Inoltre, l’opera dell’ingegno non è soggetta all’obbligo di versamento dei contributi INPS ed è esclusa dall’applicazione dell’IVA.
Che pacchia! ci viene da dire, non solo non si paga l’INPS, ma anche la deduzione forfetaria del 25% è molto di più di quanto la maggior parte di noi riesca a raggiungere raccogliendo faticosamente bollette telefoniche, timbri benzina, scontrini di bar, biglietti del tram e quant’altro.
L’articolo evidenzia tuttavia due situazioni in cui tale regime non sarebbe favorevole:
La prima situazione riguarda coloro che hanno versato dei contributi da dipendente senza aver raggiunto il minimo per la pensione. In questo caso avrebbero ancora l’opportunità di recuperare questi contributi, finalizzandoli all’ottenimento di una pensione, infatti per loro
rimane aperta la possibilità – anche solo potenziale – di totalizzare, unificare o ricongiungere (a seconda dei casi) posizioni contributive diverse, insomma di avere qualcosa da rivendicare, perché comunque quelle posizioni esistono. Le persone fisiche che hanno prodotto redditi in regime di diritto d’autore, invece, se da un lato non hanno obblighi verso l’INPS, è pur vero che dall’altro non hanno nemmeno un’ipotesi di pensione minima futura e quindi, dal punto di vista previdenziale, non potranno mai rivendicare alcunché.
La seconda situazione attiene invece l’aspetto fiscale. Le attività svolte sotto il regime di diritto d’autore devono essere scorporate dalle altre attività autonome. Se queste ultime ricadessero nel regime dei minimi, dovranno essere distinte e assoggettate a tassazione ordinaria.
A seconda dell’ammontare dell’una e dell’altra quota di reddito, questo scorporo potrebbe rivelarsi molto o poco vantaggioso per il contribuente, specialmente se sono presenti ulteriori redditi (fabbricati, lavoro dipendente, contratti a progetto ecc.). La valutazione effettiva potrà farla solo il vostro consulente fiscale cifre alla mano, analizzando nel dettaglio il caso singolo.
L’articolo offre anche lo spunto per una riflessione più ampia.
Il sistema pensionistico pubblico è un’importante conquista della nostra civiltà, l’obbligatorietà di un versamento pensionistico è motivata dalla necessità di garantire a tutti i cittadini un reddito di pensione adeguato (si presuppone che non sempre l’individuo sia in grado di prevedere con cura i propri bisogni effettivi in un periodo lontano nel tempo e di risparmiare in modo opportuno), mentre il ruolo pubblico trae giustificazione dal fatto che esistono problemi informativi che non permettono di valutare correttamente la gestione degli intermediari finanziari e quindi la loro solvibilità di lungo periodo (tanti dubbi esistono ad esempio su molte delle casse private dei professionisti ordinisti).
Tuttavia, ci sono alcuni elementi che non tornano.
Il primo è che questi principi dovrebbero valere per tutti, ma non è così. Ed è sempre più inaccettabile il persistere di ampie sperequazioni tra diverse categorie o tra diverse tipologie di lavoro, anche riferibili agli stessi soggetti (nel caso specifico se traduco un romanzo rientro nel diritto d’autore, se traduco un testo commerciale rientro invece nell’attività professionale con partita iva e le due situazioni, come visto, godono di un trattamento previdenziale e fiscale molto diverso).
Il secondo, ancora più grave, è che nella realtà è venuto meno uno dei motivi fondanti dell’obbligatorietà del sistema pensionistico, ovvero l’assicurare una pensione dignitosa a tutti e in grado di remunerare adeguatamente quanto versato.
In questa situazione probabilmente la maggior parte di noi rinuncerebbe al cosiddetto pilastro pubblico.
Ma è questa la giusta soluzione? E’ vero, possiamo pensarci singolarmente, ma quali garanzie ci offrono i sistemi privati? Si può pensare anche a investimenti completamente diversi, per intenderci a investimenti edili o azionari, ma in questo caso non si gode di alcuna deducibilità fiscale (uno svantaggio non da poco!). E se inoltre i nostri investimenti non andassero a buon fine?
Se non vogliamo ritrovarci un futuro di vecchi senza pensione, la soluzione deve essere un’altra. Occorre procedere con interventi che armonizzino il trattamento previdenziale di tutti i lavoratori e che rendano nuovamente conveniente l’investimento pensionistico pubblico, ridando validità alle motivazioni fondanti del nostro sistema pensionistico.
5 Commenti
Francesca Stignani
ReplyGrazie davvero per aver sollevato l’argomento! In effetti, quello che appare come un vantaggio nel presente (soprattutto in questi anni di vacche magre…) potrebbe rivelarsi un vero disastro nel futuro, perché ritrovarsi in vecchiaia senza lo straccio di un contributo da rivendicare è una prospettiva a dir poco terrificante. Certo, vista la situazione della gestione separata (rapporto spesa/benefici nettamente svantaggiosa per il lavoratore autonomo), nemmeno l’idea di pagare l’inps è particolarmente allettante. Ma credo che se ci venisse chiesta una cifra equa in cambio della garanzia di una pensione anche modesta saremmo disposti a pagarla tutti.
Mario Panzeri
ReplyA me sembra che qui si stia sempre più scivolando su un approccio ideologico ai problemi. “Che bello sarebbe il sistema previdenziale pubblico se si pagassero meno contributi e si ricevessero prestazioni più elevate! Che soddisfazione avere qualcosa da rivendicare!”. Peccato che i “se” e le rivendicazioni non siano commestibili. Col principio del “che bello se…” si potrebbe anche sostenere che sarebbe meraviglioso se le gestioni previdenziali private fossero più trasparenti (davvero trasparenti, mica come l’INPS: dice niente, per esempio, la vicenda della busta arancione…?), o se gli investimenti in attività azionarie o edilizie fossero fiscalmente deducibili. Ma è meglio attenersi ai fatti. E allora mi pare assai significativo che quando, parecchi anni fa, il governo di allora progettò di sottoporre a prelievo contributivo i redditi derivanti da diritti d’autore, i percettori di tali diritti – molti dei quali scrivevano e cantavano le lodi del pubblico e denunciavano le vergogne e le ingiustizie del privato – fecero le barricate contro tale progetto, al punto che il governo decise di fare marcia indietro. Quindi, per favore, cerchiamo di investire le nostre modestissime risorse per ottenere, da chi eventualmente è disposto a darcelo (di destra o di sinistra, pubblico o privato), qualcosa di concreto e presto (“nel lungo periodo siamo tutti morti”, sosteneva un economista non sospettabile di simpatie “conservatrici”)invece che abbandonarci a voli pindarici su come dovrebbero andare le cose in un mondo ideale. Qualunquismo? A me sembra, particolarmente nelle non invidiabili condizioni in cui ci troviamo, soltanto sano pragmatismo o, più prosaicamente, piedi ben saldi a terra.
Dario Banfi
ReplyNon tutto quello che sta scritto nel post e nei commenti è corretto. Parlo per me perché so quel che dico. Io iscritto alla Previdenza dei Giornalisti come freelance (per chi non lo sapesse abbiamo anche noi una Gestione Separata, che è in confronto INPS2 è una Banca Svizzera) sono tenuto a pagare la parte di contribuzione anche sui proventi derivanti da opere dell’ingengo. Lo scrissi e dimostrai qui già quattro anni fa, con la beffa che gli editori che pagano i diritti d’autore si rifiutano di pagare la rivalsa del 2% e noi comunque dobbiamo versarla.
Credo che ci siano molti più punti di contatto che di separazione tra le probelmatiche di diversa natura che interessano le differenti famiglie professionali iscritte alle Gestioni Separate italiane. Per noi giornalisti quello della cessione dei diritti d’autore è un espediente volgare e pericoloso con cui gli editori ci obbligano a farci pagare per risparmiare. Va detto poi che abbiamo sì un vantaggio fiscale sul calcolo della base imponibile, ma che i compensi sono davvero fuori misura, sotto la soglia della decenza.
Questo vantaggio fiscale nacque, per chi ha seguito la storia del diritto d’autore, per favorire la creazione di opere dell’ingengo, poi con il tempo si è trasformato in espediente per risparmiare. Questo significa che il vantaggio fiscale è svanito con il dumping dei prezzi e che la questione della cessione dei diritti d’autore è semplicemente una ferita aperta più che un paradiso per pochi, almeno nel mio segmento professionale, che riguarda i lavori di scrittura.
Anna Soru
ReplyNon si tratta di errori, bensì di differenze tra la situazione di Dario (iscritto all’ordine dei giornalisti) e quella di Sandra (attività autonoma non ordinista).
Ci sono regole diverse nel pagamento dei contributi previdenziali per l’INPGI e l’INPS.
roberto
ReplySalve ma nell’attivita di opere di ingegno mi faccior ealizzare un sito web ecommerce devo pagare l’INPS? Se invece apro solamente un sito vetrina senza vendita ecommerce devo pagare l’INPS?