Precari ed autonomi a Milano
13 Aprile 2011 Diritti, Lavoro, News
Per circa 10 anni la giornata milanese del primo maggio ha offerto un curioso spettacolo. Al mattino la manifestazione ufficiale dei tre sindacati confederali e delle autorità che, secondo notizie di stampa, non raccoglieva più di 5/6 mila persone. Al pomeriggio il corteo della May Day Parade con decine di migliaia di giovani, in certi anni si era parlato di 200 mila persone. San Precario lo avevano inventato loro. Era la rappresentazione fisica di due mondi incomunicabili: i sindacati disposti a difendere solo la forza lavoro che gode delle tutele tradizionali, impenetrabili alle esigenze del nuovo mondo del lavoro, i giovani che non chiedevano lavoro stabile e assicurato ma reddito di cittadinanza o qualcosa che potesse contribuire a rendere meno rischiosa la precarietà, considerata un fatto acquisito e irreversibile.
Alla manifestazione del 9 aprile di sabato scorso la grande massa di questi giovani che avevano inventato la May Day Parade non c’era. C’erano le liste che sostengono Pisapia, i giovani entusiasti che quelle liste sostengono, quasi tutti precari ovviamente, c’era un po’ di CGIL e alcune iniziative civiche. Erano lì nel quadro delle elezioni comunali, un’occasione per Milano di risvegliarsi un po’.
Perché?
Secondo la mia opinione per capirlo occorre fare mente locale a quel che è accaduto nel frattempo. Allo spirito originario di quello che è stato chiamato “il precariato giovanile”, ricco di fantasia, anarco-situazionista, ecologista radicale, vicino al movimento hacker, del tutto estraneo ai modi ed ai simboli sia della sinistra che della politica in generale, si è pian piano contrapposto il vecchio armamentario comunista, sono riapparse le vecchie tendenze e movenze degli Anni Settanta che il superamento del precariato lo vedono magari nell’assunzione generalizzata (dei dipendenti pubblici o degli enti pubblici). Vecchi fantasmi, zombies il cui unico scopo è quello di soffocare la fresca creatività di un movimento di gente senza illusioni sul proprio futuro, che era nato proprio dalla latitanza della sinistra sulla questione del lavoro. La May Day Parade (non per caso fu scelto un nome ironico) era nata da ragazzi degli istituti tecnici e professionali più che da studenti universitari, cioè da gente che in genere va a lavorare subito, come mia figlia, per esempio.
Mia figlia fa un mestiere artistico che una volta era riservato solo ai maschi, ha una vera passione per la sua professione, ha avuto delle belle soddisfazioni, ma non sa se domani o la settimana prossima lavorerà o meno, benché abbia da tempo passato la trentina. E’ ovvio quindi che il problema del precariato lo abbiamo “dentro”, nelle nostre famiglie, anche noi che del lavoro intermittente abbiamo fatto una professione. Faccio fatica quindi ad essere d’accordo con quei soci che dicono “noi autonomi siamo diversi e non ce ne frega niente dei precari”. Ma non mi convince nemmeno l’idea che ACTA debba aderire a tutte le iniziative in cui si parla di “lotta al precariato”. Non tanto perché i problemi dei lavoratori autonomi sono diversi. Quanto perché, come accade spesso in questo paese, dopo aver ignorato il problema per anni, improvvisamente se ne fa una merce mediatica e lì dentro i discorsi si confondono o servono solo ad uso di rappresentazione, il loro contenuto politico si stempera in semplificazioni sfocate e il risultato finale è zero.
Un interessante articolo di un critico letterario elencava di recente le opere di narrativa di giovani autori italiani nelle quali il protagonista o i protagonisti sono i “giovani senza futuro”, i “precari a vita”. Sono una quantità sorprendente, e lo stesso si può dire delle opere di giovani registi! Il “precario” sta diventando ormai uno stereotipo, una maschera di questa sconcertante commedia italiana, una marionetta che qualunque burattinaio può manovrare a piacere. Aver conquistato un posto nello spazio pubblico, una maggiore evidenza mediatica, assai più dei freelance, non ha finora portato a risultati concreti. Perciò sono più dell’idea che il terreno su cui ACTA debba muoversi non sia tanto quello della solidarietà ma quello del rigore e della lucidità mentale. Quando si parla di lavoro oggi è assai più complicato di 30 anni fa. Rigore significa specificare e delimitare le singole problematiche delle diverse realtà professionali, evitare la superficialità e la confusione, individuare obbiettivi specifici e la strada per arrivarci. Bene o male ACTA ha dimostrato di saperlo fare per i lavoratori indipendenti, dove non c’era da fare chiarezza nei confronti di zombies con vecchi simboli al collo ma nei confronti di signori intrappolati nella vecchia ideologia del professionalismo ottocentesco. Mettere a disposizione questo metodo per chi, giovanissimo o quarantenne, si attiva per migliorare la sua posizione nei confronti del problema del lavoro, potrebbe almeno evitare che un movimento, nato spontaneamente per reagire a scelte politiche irresponsabili, finisca sotto il controllo di quegli stessi che hanno firmato quelle scelte. Magari nel frattempo alcuni di costoro si sono pentiti e vorrebbero rimediare. Il prezzo però non sono certo loro a pagarlo ma i nostri figli.
5 Commenti
Paola Gatto
ReplyNon mi identifico con un precario, perché non avendo cominciato da precaria, ho potuto godere di momenti di stabilità lavorativa ed economica; ma temo il precariato come il diavolo l’acqua santa e lo assimilo ad un buco nero del lavoro nel quale a tratti potrei essere risucchiata.
A differenza del lavoratore o del professionista autonomo, ritengo che il precario oggi sia una figura universalmente riconosciuta. Tutti sanno cos’è un precario e questo termine compare in tutte le testate giornalistiche, dalla prima pagina alla sezione economia e lavoro, e in tutti i blog della rete. Non così il professionista autonomo della Gestione Separata.. e poi, che circonlocuzione serve per identificarci..
Per converso i precari, presenti in ogni settore del lavoro, per questa eterogeneità di origine e preparazione, sono forse più difficili da rappresentare, mentre i lavoratori autonomi almeno condividono fiscalmente la registrazione all’INPS.
Non basta che l’impiego in somministrazione, lo stage e l’apprendistato vengano additati come soluzioni, perché in molti casi questi rapporti si convertono in occupazione a tempo indeterminato. Vorrei poterci credere. Per lo meno, ci credo, ma non credo che il fenomeno sia di portata tale da essere risolutivo.
Mi sono fatta l’idea che siano necessari veri e propri scardinamenti e ricomposizioni del sistema lavoro e welfare. Temo che non sia tanto la scoperta dell’acqua calda, perchè altrimenti, con tutte le proposte di legge che sono state avanzate da destra e da sinistra, il problema sarebbe già risolto. Troppa rigidità che mal accoglie le innovazioni o troppe teste che non si mettono mai d’accordo su una proposta realizzabile? Mi piacerebbe capirlo.
Dilva
ReplyCiao Sergio, stavolta, non sono d’accordo con te.
Il 9 aprile a Milano, le grandi masse, è verissimo, non c’erano, ma c’erano tanti singoli, alcune associazioni, gli “over” e, anche San Precario.
Il reddito di cittadinanza o reddito minimo garantito, è ancora una delle primarie richieste con la novità che, oggi, non lo chiede più solo San Precario.
Quest’anno, anche il May Day sarà diverso.
Eravamo in piazza, ognuno con le proprie differenze ma, con un unico obiettivo: iniziare un percorso insieme.
Tutti ben coscienti e per nulla allineati con la marmorea CGIL.
Io e moltissimi altri, non ci sentiamo e non siamo affatto burattini mediatici, anzi, ma “solo” schiavi di vent’anni di governi (di centro sinistra e di centro destra) che mai hanno voluto valutare le conseguenze di ciò che stavano “contro riformando”.
Capita spesso che il freelance diventi precario, spessissimo nel caso degli “over” che tu dimentichi totalmente.
In Italia il percorso è questo: flessibilità = precarietà = over, intorno ai 35 anni = disoccupazione = no pensione = no tutele = ….???
Certamente, sono completamente d’accordo che occorra rigore e lucidità e su quanto sia di gran lunga più complicato parlare, oggi, di lavoro, ma vedi, il rigore, spesso rischia di trasformarsi in élite: una élite che non vuole abbassarsi a denunciare anche in piazza il vero, reale e quotidiano dramma che costringe gli under e tantissimi over, a non poter più vivere.
La lucidità, credimi, non ci manca: siamo abbastanza grandi e coscienti, da non cadere sotto il controllo di nessuno, compresi i sindacati riconosciuti e, soprattutto, dei vari Ichino, Cazzola, Sacconi… o dei vai “capoccia” locali, che quotidianamente manifestano la loro profonda ignoranza, oltre a tutto il resto.
Il prezzo, caro Sergio, lo stanno già pagando da tempo gli over, e tutti coloro che, nati dopo il 1951, non hanno voluto o non hanno potuto avere contratti a tempo indeterminato.
Domani, lo pagheranno tutti.
Elsa Bettella
ReplyCredo sia proprio difficile definire chi siamo, se non per “default”: non siamo dipendenti, non siamo precari, non siamo liberi professionisti, non siamo disoccupati (forse), allora siamo lavoratori autonomi. Mancano ancora parole, significati condivisi e ruoli sociali compresi da chiunque. Mentre chiunque sa cosa vuole dire “precario”, solo pochi sanno che cosa vuole dire “lavoratore autonomo” e spesso quei pochi neanche si identificano dentro la categoria. Altrimenti non si spiega come mai su tre milioni di partite iva siano solo qualche centinaio gli iscritti all’unica associazione di rappresentanza del lavoro autonomo, quale è Acta. E’ possibile che i consulenti del terziario avanzato, ovvero i cipputi della conoscenza, siano così pochi? Torno a pensare che forse la vocazione di Acta possa essere quella del pensatoio. Forse Acta è un think tank capace di studiare, riflettere, scrivere, consigliare. E’ questo il suo compito? Se sì, allora siamo fin troppi. Ma se la rappresentanza non si esaurisce nel pensare, dobbiamo continuare a lavorare su come rappresentare un popolo di autonomi sempre più eterogeneo per età e mestieri e sempre più senza lavoro o con lavoro precario. Dobbiamo condividere le scelte di campo ed essere tutti convinti delle cose che decidiamo di non fare e dei no che diciamo: no ai sindacati, no ai partiti, no ai gruppi di pressione, no ai movimenti. Non rischiamo di essere solo dei nuovi lavoratori spaesati e snob, orgogliosi della propria unicità? Non sarebbe meglio invece di tanto rigore e lucidità pensare a un po’ di solidarietà? Mi rendo conto di avere solo domande da proporre. In questi tempi nemmeno più l’età porta saggezza e risposte!
Dilva
Reply“Se sì, allora siamo fin troppi. Ma se la rappresentanza non si esaurisce nel pensare, dobbiamo continuare a lavorare su come rappresentare un popolo di autonomi sempre più eterogeneo per età e mestieri e sempre più senza lavoro o con lavoro precario.” (…) “… no ai sindacati, no ai partiti, no ai gruppi di pressione, no ai movimenti. Non rischiamo di essere solo dei nuovi lavoratori spaesati e snob, orgogliosi della propria unicità? Non sarebbe meglio invece di tanto rigore e lucidità pensare a un po’ di solidarietà?”
Sono molto d’accordo Elisa:
Esatto: sempre più senza lavoro, spessissimo in età avanzata, facenti lavori che non hanno più alcuna cultura, sempre più con una vita precaria.
Orgogliosi della propria unicità in quanto P.IVA?
Ho sempre considerato questo “orgoglio” quantomeno ridicolo: io posso essere orgogliosa di essere un buon art director e una buona docente di comunicazione ma, dell’orgoglio di essere dipendente a tempo indeterminato o di essere freelance (freelance nel mondo di oggi), non può fregarmene di meno.
Non cado nell’inganno, molto snob, di sentirsi “imprenditore di te stesso”.
Gli imprenditori sono ben altro e, in Italia, assai scarsi.
Molti di più, sono i semplici disoccupati non riconosciuti come tali.
Pensare a un po’ di solidarietà?
Sì ma, soprattutto condivisione e diffusione di quelle che sono le priorità vere per cui si dovrebbe combattere: molti professionisti autonomi (compreso quel milione e mezzo che vive con 7.000 euro l’anno e l’altro milione e mezzo, appartenente a categorie varie, che un lavoro non lo cerca più e che vive con 0 ero all’anno), forse, vorrebbero un sindacato (come scritto nello Statuto Acta) che si occupi di disoccupazione e precarietà, diritti e tutele inesistenti, che fosse in grado di urlare queste rivendicazioni, ovunque.
Ma tutto ciò, forse, è poco elegante.