Il lavoro indipendente tra passato e futuro
15 Ottobre 2013 Acta informa
Ricordate lo spettacolo che Acta aveva messo in scena alla Triennale e poi ripetuto altre volte? Si voleva trovare il modo per simboleggiare l’esistenza di un gruppo sociale che era anche una condizione esistenziale. Il termine lavoratore autonomo era troppo abusato, soprattutto rimandava a qualcosa di già noto, necessitava di spiegazioni, di supplementi, lavoratore autonomo di seconda generazione era troppo lungo e complicato. Ci voleva qualcosa di diverso ma che significasse anche il risveglio di un gruppo sociale che era rimasto troppo a lungo passivo, che non era riuscito ad imporsi all’attenzione, ad imporre all’attenzione altrui i propri problemi e le proprie esigenze. Poi a qualcuno venne in mente il quadro di Pellizza da Volpedo, Il Quarto Stato, divenuto una fortunata icona di tutti coloro che non hanno dimenticato il problema della giustizia sociale. Così saltò fuori il Quinto Stato.
Due amici romani, due giovani intellettuali impegnati da sempre nei movimenti sociali, colsero la palla al balzo e fondarono un sito web www.ilquintostato.org, che è stato molto utile per tenere alta l’attenzione sul movimento dei freelance, dei precari,degli intermittenti, in particolare nella Capitale dove, per una serie di circostanze dovute alla struttura economico-sociale della città, il panorama dei gruppi e delle associazioni di rappresentanza di questo variegato mondo del lavoro è particolarmente ricco. I due, Giuseppe Allegri e Roberto Ciccarelli hanno pubblicato un libro interamene dedicato alla loro idea di Quinto Stato (Il Quinto Stato. Perché il lavoro indipendente è il nostro futuro, Ponte alle Grazie Editore, p. 272, € 14,00).
Molte cose che ci sono nel libro sono stato dette più volte anche se è bene ripeterle, il contributo originale però consiste nel fatto che i due autori hanno ripercorso all’indietro i secoli per trovare dal Medioevo al Settecento ai primi del Novecento le radici di una mentalità che a loro avviso accomuna tutte le diverso figure che appartengono al mondo del lavoro ma non a quello del lavoro dipendente e salariato. Una mentalità che è anche orgogliosa rivendicazione di una “diversità”, mentalità che li fa essere nomadi, migranti e cittadini del mondo (o cittadini del web), apolidi non perché nessuno stato vuole riconoscerli, ma perché non vogliono legarsi ad alcun vincolo di subordinazione. La forzatura che Ciccarelli e Allegri imprimono a questa immagine del freelance porta a compimento una trasformazione che era cominciata una ventina d’anni fa e che man mano ha fatto diventare il freelance in giacca e cravatta che cavalca vittorioso e solitario il turbine del mercato, proteso solo al successo economico e simbolico, competitivo e guerriero, insomma il prototipo dello yuppie (Young urban professional), un individuo anarchico e irregolare, geloso della proprio libertà individuale, generoso e dissipatore, che irride tutto quanto è “normale”.
Penso che questa forzatura gli autori l’abbiano voluta per marcare il più possibile la differenza tra il Quinto Stato e l’universo del lavoro dipendente.
Suscita però qualche perplessità, come tutte le forzature, e probabilmente molti soci di Acta non si riconosceranno in questa caratterizzazione. Personalmente invece mi chiedo se la reductio ad unum di un universo variegato e complesso possa essere utile o meno alla sua emancipazione. Nella mia esperienza si sono fatti più passi avanti quando si è riusciti ad entrare nelle pieghe delle differenze, nelle maglie di un tessuto, quando, per esempio, gli “operaisti” italiani hanno preferito parlare di composizione di classe piuttosto che di un blocco sociale unitario ed omogeneo chiamato ‘classe operaia’. Forse anche noi di Acta, nell’intenzione di darci visibilità, abbiamo esagerato. Restiamo partite Iva che già così abbiamo tanto da fare….