La Carta del lavoro CGIL: vecchi occhiali per leggere il nuovo lavoro autonomo
12 Febbraio 2016 Lavoro
Non basta dire che uno statuto è rivolto a tutti i lavoratori per far sì che esso sia davvero utile per tutte le tipologie di lavoratori.
Ciò che colpisce dalla lettura (non agevole) della proposta CGIL , per la parte che coinvolge anche il lavoro autonomo, è la discrepanza tra l’altisonanza del dichiarato (Carta dei diritti universali del lavoro) e la sostanza, la superficialità della proposta che ha il grosso limite di non riuscire a superare l’appiattimento del lavoro autonomo nel lavoro parasubordinato.
Si parla di tutto il lavoro autonomo, ma si ha in mente solo il lavoro finto autonomo
Il Titolo 1 della Carta si applica “a tutte le lavoratrici e a tutti i lavoratori titolari di contratti di lavoro subordinato e di lavoro autonomo, anche nella forma di collaborazione coordinata e continuativa”, ma anche a tirocini di formazione e orientamento ed attività socialmente utili.
Il tentativo di unificare è in realtà l’adattamento di una cornice nata per il lavoro dipendente, allargata (deformata?) per comprendere il lavoro autonomo, ma che riesce al più ad includerne solo una parte.
E’ interessante osservare che c’è stato un ammirevole lavoro di “ripulitura” del linguaggio. In tutto il Titolo 1 non si parla mai di “finte partite iva” o di “lavoro economicamente dipendente”. Non possiamo che apprezzare questo sforzo, indica che in qualche modo il sindacato ha recepito che esiste anche un lavoro autonomo genuino e che anche a questo devono essere riconosciuti dei diritti.
Tuttavia questa accettazione non ha determinato un vero cambio di impostazione: molti articoli sono stati scritti avendo in mente non tutto il lavoro autonomo, ma solo quello di fatto parasubordinato.
Come spiegare altrimenti la necessità (anche per i lavoratori autonomi, specificamente citati nelle diverse norme) di regolare il diritto al riposo, definire i permessi per le visite mediche, i congedi per attività di formazione, le misure per conciliare i tempi di lavoro e di cura?
Uno dei motivi per cui tanti preferiscono, nonostante tutti gli altri svantaggi, un lavoro autonomo è proprio la possibilità di definire in autonomia tempi e luoghi del lavoro.
Contrattazione collettiva a gogò
Questa non comprensione è evidente anche esaminando gli strumenti proposti.
Che si tratti dei compensi o della parte normativa (riposi e ferie), tutto è affidato alla contrattazione collettiva, esattamente come nel lavoro subordinato.
E’ vero, non è facile individuare modalità efficaci per dare forza al lavoro autonomo professionale. Ma non si può aggirare questa difficoltà riproponendo pari pari uno schema palesemente non applicabile alla maggior parte del lavoro autonomo professionale, in cui più lavoratori, ciascuno con professionalità differenti, operano parallelamente con più committenti, spesso appartenenti a settori diversi e anche a paesi diversi.
Si affrontano molti grandi problemi, ma in maniera semplicistica
Il grande tema dei compensi, della difficoltà a far valere compensi equi e che valorizzino le professionalità è risolto con il rinvio alla contrattazione collettiva o, in mancanza di accordi collettivi applicabili, ad una determinazione da parte del giudice (possibilità già prevista).
Della difficoltà di applicare la contrattazione collettiva si è già detto. Se poi il tema è quello dei compensi subentra un ulteriore elemento: il compenso non può generalmente essere definito sulla base del tempo, ma di una prestazione. Non esiste perciò un parametro valido per tutte le attività di lavoro autonomo su cui misurare i compensi, ma è necessario di volta in volta individuarne uno o più.
Sulle pensioni, per garantire a tutti il diritto ad una adeguata tutela pensionistica si chiede la completa totalizzazione e ricongiunzione dei contributi versati e nel caso la pensione non sia sufficiente, un’integrazione dal parte dello Stato.
Non si propone una correzione del sistema contributivo, in modo da valorizzare l’investimento pensionistico e reintrodurre allo stesso tempo dei principi di solidarietà, ma si risolve il tutto con un intervento puramente assistenziale.
E sulla disoccupazione, con grande leggerezza si propone di applicare anche al lavoro autonomo il sistema assicurativo, usando lo stesso regime dei costi del lavoro subordinato, senza chiedersi quanti lavoratori autonomi possano permettersi o siano disposti ad accollarsi un ulteriore aumento del carico contributivo, già insostenibile nella situazione attuale.
Grandi assenti : malattia e gravidanza
Nessuna norma su questi punti, se non per i “lavoratori economicamente dipendenti”, che qui ritornano in maniera prepotente.
Dimenticando l’opera di pulizia del linguaggio, nel titolo 3 , il Capo 2 prevede l’“Estensione delle tutele dei lavoratori subordinati ai lavoratori autonomi e ai collaboratori coordinati e continuativi”. L’articolo 42 definisce la “nuova disciplina dei contratti di collaborazione coordinata e continuativa e dei contratti di lavoro autonomo con caratteristiche di dipendenza economica” ai quali «si applica la disciplina, compresa quella previdenziale, prevista per il contratto di lavoro subordinato».
E tutti gli altri?
Niente.
Anche in questa carta che in fondo (per la parte sul lavoro autonomo) è più un insieme di obiettivi che un vero articolato, non compare alcun riferimento a strumenti universali del welfare.
Forse comprensibilmente, il sindacato è restio ad abbandonare un sistema di welfare come quello attuale, che per i dipendenti nel complesso funziona. Ma non c’è neppure alcuna proposta per migliorare la situazione a partire da quanto già esiste, resta così scoperta un’area fondamentale per i lavoratori autonomi.
E probabilmente è meglio così. Non sembra ci siano ancora le condizioni per fare delle proposte adeguate alle nostre esigenze.
Lo dimostra la dichiarazione di sabato 6 febbraio di Susanna Camusso al Corriere della Sera, a commento del DDL sul lavoro autonomo «come si fa a prevedere un diritto alla maternità se non si prevede di sospendere il lavoro?». «La tutela della maternità non è solo monetaria, ma anche della persona».
Una conferma che la CGIL, nonostante gli sforzi fatti, non ha ancora capito il lavoro autonomo. Per una freelance l’obbligo di astensione dal lavoro per avere diritto alla indennità é solo un vincolo in più, perché raramente può permettersi di sospendere completamente l’attività lavorativa per 5 mesi, se vuole mantenere i suoi clienti.
Certo esistono le “finte partite iva”, ma occorre ricordare che la norma attuale non vieta alle donne di lavorare in gravidanza, ma solo di accedere all’indennità, quindi non impedisce comunque la sopraffazione. E soprattutto la strada deve essere quella di combattere gli abusi, non di regolare tutto il lavoro professionale come se fosse un abuso.
In conclusione mi sono chiesta se la CGIL abbia voluto scrivere una Carta che si rivolgesse anche al lavoro autonomo solo per dimostrare a tutti che non si occupa solo dei “garantiti”. Ma non credo sia così. Penso che ci abbia davvero provato, ma proprio non riesca o non voglia uscire dagli schemi consolidati.
1 Commenti
antonella
ReplySolo un commento, un urlo di dolore:
il carico fiscale è tutto sulle spalle del lavoratore; questo pazzesco 29% inps (recuperato solo quando gentilmente concesso dal committente per la quota 4%) è troppo elevato e quasi alla pari del lavoro dipendente per avere, rispetto a loro, un NIENTE in termini di assistenza o previdenza. Ma non solo la pensione, signori miei, e un obolo per la maternità. Sono una cinquantenne e semmai mi ammalassi sarei nelle pesti. Pari contribuzione/pari diritti. Non basta? allora dividiamoci il carico col committente. Noi mettiamo i famosi due terzi, chi ci paga mette 1/3 …. come era fino a qualche anno fa. Questa settimana ho fatturato per una onlus (che ovviamente non recupera l’Iva) un compenso lordo TUTTO COMPRESO in cui era a mio carico anche l’IVA. Vi pare possibile? 300 euro lordi (meno 52 iva pagata per loro, 70 inps che andrò a versare, 50 irpef alla fonte e in dichiarazione un altro 10% almeno = netto 100 euro)
Saluti. AB