Le avventure di Astolfa, biofreelance – 5a puntata
8 Aprile 2016 Vita da freelance
Dalla penna di bulander alle pagine di Actainrete.it.
Un inedito racconto a puntate, ogni venerdì, per sorridere e prepararsi al meritato weekend.
Cover di Marilena Nardi.
Quinta puntata
[Se te la sei persa o vuoi rileggerla, qui trovi la quarta puntata.]
Gli sciami improvvisamente uscivano compatti, volteggiavano un po’ per l’aria e poi si disponevano in un ordine perfetto e sfilavano davanti a tre o quattro api che stavano immote, sospese nell’aria, e una di queste aveva addosso qualcosa che assomigliava a un cappello.
Gli tornarono in mente le foto di un libro che da ragazzo aveva trovato in casa di un commerciante tedesco, al quale la mamma faceva da domestica e donna tuttofare, laggiù a Kuala Lumpur. Si vedevano grandi sfilate di uomini vestiti tutti uguali, che
marciavano davanti a un palco dove c’era un tizio coi baffetti, che sembrava il capo. Si convinse così che nel regno delle api, caratterizzato dall’èra della Creazione da una divisione del lavoro millimetrica, c’era stato un colpo di stato e vigeva ora una dittatura nazista. Ne parlò con i suoi amici buddisti che approfittavano delle lunghe assenza di Astolfa per andarlo a trovare e passare così qualche ora al fresco della radura, suonando, intonando le loro monotone cantilene e consumando frugali picnic.
Decise di non dire nulla a nessuno delle Agenzie e tantomeno ad Astolfa. Ma fu questa ad accorgersi che qualcosa andava storto, perché la produzione di miele diminuiva a vista d’occhio e per di più non era buono come prima, anzi, ricordava vagamente il chinotto. E gli orsi, appena ingoiato, lo sputavano. Furono chiamati immediatamente gli esperti dell’AIA, il povero ragazzo malese
fu sottoposto a un duro interrogatorio. Quando confessò che ogni tanto arrivavano i suoi amici e allora si cantava e si suonava in buona compagnia, fu deciso che a far impazzire le api erano stati i suoni di quegli strumenti esotici.
Ai buddisti pertanto fu impedito l’accesso agli insediamenti dell’AIA, mentre il poveretto fu internato in manicomio, perchè ebbe la cattiva idea di riferire le sue teorie sull’instaurazione della dittatura nazista all’interno delle arnie.
La povera Astolfa doveva cominciare daccapo. Avrebbe avuto la stessa fortuna con le marmellate? Oppure doveva lasciare tutto e tentare qualche nuova strada? In fin dei conti era meglio vivere in una casa invece che in un container, avere l’acqua corrente invece che attingerla da un pozzo, stare in mezzo alla gente invece che stare da sola, non avere allarmi, sensori, videocamere ma solo un bell’impianto hi fi con tanti cd. Decise di chiedere consiglio a quelli della Mocciosi Consulting.
“Il nostro principale è ben felice d’incontrarla, signorina Astolfa, le puo’ andar bene giovedì alle 9?”
Eros Mangiavetri non era un fachiro, come suggerisce il nome, ma uno dei due partner della Mocciosi Consulting. Non ne poteva più di quel mestiere anche se aveva guadagnato negli ultimi anni un bel po’ di quattrini. Avrebbe lasciato volentieri tutto al suo socio, ex maggiore dei servizi segreti che era rimasto senza lavoro dopo che i lunghi anni delle tensioni ai confini con la Francia
erano finiti grazie al Trattato di Asti. Quando Mangiavetri fondò la Mocciosi Consulting si mise subito alla ricerca di un socio con cui dividere i rischi dell’impresa. Mise un annuncio sul “Corriere”. Si presentarono in tanti, ma lui scelse Antimo Guardone perché veniva dai servizi segreti e Mangiavetri pensava che uno dei servizi segreti dovesse essere un tipo sveglio, pieno d’iniziativa, abituato a risolvere problemi complessi. Invece Guardone, poveretto, era proprio – come dire? – ritardato. Ma poiché per fare il
consulente non c’è bisogno di essere svegli o men che meno intelligenti, la Mocciosi Consulting non sembrò soffrire di deficit di management. I bilanci chiudevano sempre in attivo.
“Se vuoi, la mia quota la cedo a te” esordì quel giorno con Astolfa, “ti farei un prezzo speciale, pagabile con rate annuali. Tu sei una donna di successo, a te va tutto bene”.
Astolfa sorrise: “Ci posso pensare. E tu cosa andresti a fare?”.
“Potrei realizzare il mio sogno”
“E quale sarebbe?”
“Diventare il più grande stilista al mondo della dog fashion”
“Ciumbia! Non ti credevo così ambizioso. Se tu mi avessi detto ‘voglio diventare Iddio in terra’ ti avrei considerato una persona modesta”.
Già prima della crisi del 2008, che poi si sarebbe trascinata per altri 40 anni, presso la piccolo-media borghesia della service society si era diffusa la convinzione che possedere un cane era un simbolo di status. Farsi vedere al mattino mentre lo si portava a spasso, raccogliere le sue deiezioni in un sacchetto di plastica, andare ai giardinetti per incontrare altri proprietari di cani, era un rito sociale al quale nessun cittadino rispettabile poteva sottrarsi. Trattare bene il proprio cane, educarlo, mandarlo in vacanza, fargli fare dei corsi di diverse specializzazioni, affidarlo a un barbiere due volte al mese, comperargli un guinzaglio nuovo ogni sei mesi, lustrarlo e pettinarlo, insegnargli a comportarsi bene in salotto con gli ospiti, dotarlo di un nuovo set di ciotole ogni primavera e tante altre cose ancora, erano abitudini ormai radicate nella piccolo-media borghesia, e stavano per diventare uno dei fenomeni più rilevanti di uniformazione del sociale. Sicché alla poca alta borghesia rimasta, composta generalmente da riccastri arricchiti in maniera losca, nacque il desiderio di distinguersi cominciando a vestire i loro cani con indumenti costosi e raffinati.
Nacque così la moda del cane o dog fashion, che produsse celebri stilisti e l’Italia come al solito tornò a primeggiare.
[to be continued]
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