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Le avventure di Astolfa, biofreelance – 9a puntata

6 Maggio 2016 Vita da freelance

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Dalla penna di bulander alle pagine di Actainrete.it.
Un inedito racconto a puntate, ogni venerdì, per sorridere e prepararsi al meritato weekend.
Cover di Marilena Nardi.

Nona puntata

[Se te la sei persa o vuoi rileggerla, qui trovi l’ottava puntata.]

La macchina, una BMW nera gran lusso, era nel posteggio, al buio. Hollandér s’era addormentato sul sedile posteriore e russava dolcemente. Aveva aperto la gabbia a Grey Rose che s’era messa al posto di guida, le zampine anteriori sul volante, vispa e curiosa. Glen-gul, libero anche lui, svolazzava per l’abitacolo fischiettando l’Aria delle Variazioni Goldberg.

Attraversarono una Milano semi deserta, qua e là i resti fumanti delle ultime barricate (i soliti disordini dei disoccupati sobillati dai centri sociali….). Imboccarono l’Autostrada del Sole diretti a sud. Astolfa amava guidare di notte, la cocaina che si portava sempre appresso la teneva sveglia.

“In cinque ore”, pensava, “dovremmo essere arrivati. Se questo maledetto pappagallo smettesse di svolazzare… mo’ apro il finestrino e magari se ne va.”

Ma il fiotto d’aria gelida che entrò nella macchina, appena abbassato il finestrino, non ebbe altro effetto che quello di svegliare di soprassalto François.

“Oddio, dove sono? Grey Rose dove sei? L’hai presa la pillola stasera? Glenguld ripeti: ‘nel mezzo del cammin di nostra vita…’”.

Ma le bestie dormivano sul sedile accanto al conducente. Ne approfittò Astolfa per parlare di affari:

“Ti devi mettere subito al lavoro per la collezione di primavera. Da gennaio ho in esclusiva Nefertiti II.”

“Chi? Quel Podenco femmina dal Pelo Corto?”

“Sì, ci hai già lavorato, la conosci?”

“Mi ha morsicato una volta. È un’isterica, presuntuosa, si dà troppe arie…e poi non sopporta Glen-gul”.

“Se è per quello nemmeno io”, pensa tra sé Astolfa, schiacciando l’acceleratore.

Bisogna riconoscere che non sempre le idee di Astolfa erano brillanti. Il rifugio segreto sull’Appennino, dove “Pet” avrebbe dovuto concepire le sue creazioni sartoriali, si rilevò un disastro dal punto di vista logistico. I sette canili, in un’area che occhio e croce era di un km quadrato, si rivelarono ben presto incompatibili tra loro, le brave bestie s’azzuffavano in continuazione e i levrieri, indossatori ideali e preziosi, avevano spesso la peggio. Ce n’erano un paio che zoppicavano per i morsi dei bassotti.

La modista di Poggibonsi s’era portata dietro una mucca, che dava buon latte ma non poteva sopportare i bracchi, che occupavano il canile n. 4, quello denominato Melbourne – ogni canile aveva un numero e il nome di una città. I quattro softeristi indiani, manco a farlo apposta, appartenevano alla setta dei Pluch, che adora i babbuini e li considera l’incarnazione di Abuach, il dio tanto potente quanto vendicativo. Se ne erano portati dietro una decina, in loro onore bruciavano incensi e mormoravano giaculatorie tre volte al giorno, inginocchiati con la fronte per terra, alla moda dei musulmani. Queste maledette scimmie però facevano un baccano d’inferno, soprattutto di notte. La modista si lamentava che non poteva dormire, anche la mucca aveva il sonno disturbato e segnalava il suo scontento con lugubri prolungati muggiti. Ma il vero problema erano gli istruttori dei cani, quelli che insegnavano il portamento nelle sfilate, che li abituavano a stare imperterriti sotto il fuoco dei flash per sette ore di fila. Erano una decina, alcuni specializzati su determinate razze, altri generalisti, tutti scozzesi, usciti dalla famosa Dog Fashion Academy di Ipswich. Essendo la comunità più numerosa del borgo containerizzato, pretendevano di avere le loro comodità e di conservare le loro tradizioni. Era stato necessario quindi aprire un pub solo per loro, ben fornito di birre e whisky di tutte le qualità. Quando si sbronzavano – il che accadeva ogni sera – si divertivano a dare la caccia ai babbuini. Il bosco allora si trasformava in una bolgia di strida, di risate, di urla, di fischi laceranti ma non – grazie a Dio – di spari.

L’Agenzia Insediamenti Appenninici esercitava una vigilanza ferrea sulle armi da caccia, erano ammesse solo quelle in dotazione ai vari corpi ecologici, l’ARO, il Ripopolamento Orsi, l’EdC, l’Equilibrio dei Caprioli, l’ASL, l’Agenzia per lo Sterminio dei Lupi, PdM, la Protezione del Mirtillo ecc.. Impotenti a fermare la furia venatoria degli scozzesi ubriachi, i quattro softeristi indiani, convinti che il dio Abuach si sarebbe vendicato per l’offesa portata ai sacri babbuini, invocavano la clemenza divina con grida lamentose e striduli canti che scatenavano negli ospiti dei canili, senza distinzione, un’irrefrenabile voglia di abbaiare. Allora i devoti, per coprire lo schiamazzo, percuotevano selvaggiamente dei gong che lanciavano le loro onde sonore ben oltre le cime dell’Appennino ed erano registrate anche dalla stazione sismologia del Gran Sasso. Sicché il borgo containerizzato aveva accumulato multe per schiamazzi notturni che erano una manna per i bilanci dell’AIA.

Giunta a destinazione, Astolfa aveva trasbordato il sarto e le sue bestie in un fuoristrada dell’Agenzia, indispensabile per attraversare i luoghi impervi che li separavano dal borgo containerizzato. Lei s’era messa al volante e guidando cercava d’inquadrare il volto e l’espressione di François nello specchietto retrovisore. Il canadese non fiatava e scrutava il paesaggio da intenditore di boschi, meravigliato d’incontrare con tanta frequenza luoghi abitati con gente che si fermava al loro passaggio, animali domestici e attrezzi agricoli.

“Non c’è un lago nemmeno a pagarlo”, pensava dentro di sé.

[to be continued]

 

ACTA

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di ACTA tempo di lettura: 4 min
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