Quando il compenso di un lavoratore autonomo può considerarsi equo?
10 Gennaio 2017 Lavoro
Se leggiamo l’articolo 2233 del Codice Civile, che tratta del lavoro autonomo e in particolare delle professioni intellettuali, desumiamo che il compenso può essere o «convenuto dalle parti» o «determinato secondo le tariffe e gli usi» (inciso poi abrogato quando è stato eliminato il sistema tariffario professionale) o «determinato dal giudice».
Posto che tra un accordo e un contenzioso c’è una certa differenza, benché il passo sia breve — come quello tra amore e odio, tra matrimonio e divorzio–, la materia è evidentemente densa e al legislatore non resta che circoscriverne i limiti in modo piuttosto estensivo. Salvo poi sopraelevare il tiro al piano etico-filosofico: la misura del compenso «deve essere adeguata all’importanza dell’opera e al decoro della professione».
Insomma la legge ci dice, nell’ordine: cercate di mettervi d’accordo; se non ce la fate, potete sempre ricorrere a un arbitro esterno (ma sarà difficile che sopravviviate come autonomi se non vi esercitate nell’arte della negoziazione, dico io); in ogni caso, mi raccomando la dignità: svalutarsi, o peggio acconsentire che lo facciano altri, non è mai una buona idea.
Un tempo, quando si parlava di professionisti, ci si riferiva soprattutto a quelli appartenenti agli ordini, che godevano di un certo prestigio sociale e i cui onorari non soffrivano certo di corse al ribasso, anzi — da cui la riforma Bersani. Oggi il lavoratore della conoscenza è un po’ più un artista dello sbaraglio, uno che si è armato ed è partito — che poi è l’etimo di freelance.
Albi e terminologia a parte, valorizzare il quantum del proprio valore cognitivo è un’impresa tutt’altro che facile. Vuoi perché in certe aree e specializzazioni il freelance è spesso un apripista, con pochi precedenti alle spalle (checché se ne dica, il digitale sta creando più professioni di quante ne elimini); vuoi perché lavora spesso in solitaria e difficilmente fa lobby con i suoi colleghi (ma per fortuna questo sta cambiando, complice la rete e le associazioni indipendenti, tra cui in Italia ACTA); vuoi perché, salvo virtuose eccezioni, spesso il potere negoziale di queste figure è relativo, soprattutto se la controparte contrattuale è un editore, una pubblica amministrazione o uno studio professionale, dove spesso la terra di mezzo tra fare pratica, “ambire a” ed essere sfruttati tende a infinito. Da ultimo: i compensi risultano scarsamente intellegibili a chi non ha dimestichezza in prima persona con il lavoro autonomo e li valuta confrontandoli con modelli retributivi da lavoro dipendente.
Certo, si salva chi riesce a qualificarsi e specializzarsi, e a individuare correttamente la propria nicchia di mercato. Così come si salva chi riesce a posizionarsi e a far percepire all’azienda che assiste il valore del proprio contributo — dove valore, agli occhi del cliente, è un termine preferibilmente quantitativo (deve cioè tradursi il più possibile in risultati sonanti), mentre agli occhi del professionista è piuttosto un complesso di cose, con abbondanti sfumature qualitative e ricadute a medio termine.
Come ogni investimento che si rispetti, un intervento consulenziale non deve essere considerato come un puro costo di esercizio e la resa non è solo o necessariamente immediata. I risultati dipendono da svariati fattori, alcuni imputabili al tempo e altri addirittura al cliente stesso — che magari scoprirà che delegare non significa disinteressarsi, ma anzi collaborare e sincronizzarsi.
Quando una prestazione è equa?
Secondo alcune mie fonti «un compenso può essere considerato equo quando rappresenta la giusta soddisfazione tra le parti». Per quanto il criterio della reciproca soddisfazione sia delicato e impalpabile, la questione, così posta, suona necessariamente tautologica. C’è chi la esplicita con meno pudore: «Chi compra e chi vende sono entrambi felici?». Prima di passare all’algebra, si sfiora la filosofia.
Prima di chiedermi quale sia o sarebbe il giusto compenso da riconoscere a un professionista, voglio mettermi dall’altra parte della barricata e pormi il problema dal punto di vista dell’offerta. Quando il servizio di un professionista può considerarsi equo?
Da parte mia, una prestazione è professionale quando contiene:
- un contributo significativo di competenze, di esperienza, di creatività. E ovviamente di tempo, ma su questo si potrebbe discutere: conoscete il famoso episodio della vite?
- Una quota di aggiornamento e formazione costante. Si potrebbe dire, anzi, che questa sia quasi la quintessenza del lavoro autonomo: imparare e inespertirsi continuamente, per essere più competitivi.
- La possibilità di accedere più facilmente a un network di competenze vicine e complementari, cioè a una rete di professionisti più ampia. È una forma di espansione del know-how, delle garanzie consulenziali e, potenzialmente, del team.
- La possibilità di valutare un ventaglio di soluzioni possibili, alcune cucite su misura del cliente (a volte anche fantasiosamente) e del suo budget. Sempre nell’ottica di ottimizzare gli sforzi e i costi.
- La certezza di risparmiare errori e tentativi e di asciugare tutte quelle sbandature e sbavature tipiche dell’approccio amatoriale.
Di conseguenza, se da un lato una prestazione è equa quando contempla questi aspetti, dall’altro un compenso è equo quando remunera e tiene conto degli stessi elementi.
E quando anche il compenso è equo?
La prima cosa da sottolineare è che se un professionista è certamente un soggetto che eroga una prestazione, più o meno circoscritta, egli è anche il primo manager di se stesso, cioè colui che si deve procurare e organizzare il lavoro, con tutto quello che serve per averlo e per darlo.
Per fare ciò, sostiene oneri e incombenze di gestione. Tra queste, troviamo innanzitutto le spese relative allo spazio e agli arredi di lavoro, alle utenze e alle infrastrutture necessarie (per esempio hardware e software: una volta si acquistavano, oggi per lo più si noleggiano, in modo da ammortizzare anche meglio l’obsolescenza).
Oltre alle spese operative, ci sono poi quelle amministrative, compresa non solo la parcella del commercialista, ma anche tutto il tempo impiegato a radunare periodicamente gli effetti da presentare e a fare i versamenti a fisco e INPS alle rispettive scadenze (a cui naturalmente bisogna farsi trovare solvibili), il tempo speso in burocrazia e a volte in grane: spesso bisogna fare i conti con gli accertamenti di Equitalia e con una ‘presunzione di reddito’, dove l’onere della prova è a carico dell’accertato. Eventuali spese finanziarie per la gestione del cash-flow.
Gli oneri fiscali e contributivi che, in un regime ordinario, dedotto il deducibile, si aggirano intorno a un 50–60% sul reddito imponibile, quando va bene (sto semplificando con l’accetta, giusto per dare un’idea).
Il tempo impiegato a promuoversi e cercare i clienti — quelli giusti, tra l’altro, cioè quelli che vogliono proprio ciò che possiamo dare noi, sono disposti a pagarlo e possibilmente non a babbo morto. Relazionarsi con loro, stimare un intervento, preventivarlo, negoziare e si spera concludere un accordo, collaborare, dialogare e a volte discutere, rendicontare il tempo e i servizi svolti, fatturare, esigere il credito.
Il tempo, le azioni e le strategie necessarie che servono a garantirsi una continuità di ingaggi, che è uno dei risultati di business che un lavoratore autonomo deve conseguire. Tenendo anche conto che il passaggio da un progetto all’altro implica una serie di operazioni intermedie, per così dire di entrata e di uscita, che ne presuppongono a loro volta altre precedenti e seguenti. In altre parole: la flessibilità è una bella cosa (secondo me), in certi casi è una grande opportunità (da ambo le parti), ma ha pur sempre un suo costo intrinseco, che va riconosciuto.
Poi c’è quello che chiamerei il paradosso dell’agenda. Un bravo professionista è uno che riesce a saturare tutto il suo tempo disponibile al lavoro; ma ciò che diventa subito evidente è che non tutto il tempo può essere lavorativo in senso stretto perché, per poter lavorare, bisogna fare un sacco di cose prima e dopo, non tutte divertenti e non tutte prevedibili. Nelle simulazioni — e in base all’esperienza — si calcola che questo tempo di gestione vada dal 40 al 70% della propria agenda lavorativa. In questa sacca ci sta tutto quanto abbiamo elencato sopra come incombenze di gestione e amministrazione, procacciamento di contatti e contratti, promozione di se stessi.
Poi c’è anche il tempo che, all’interno degli incarichi, viene speso in riunioni, telefonate, mettersi d’accordo, fare e disfare ecc.: è il cosiddetto micromanagement, il cui rischio non può restare incognito, altrimenti diventa una bolla espandibile all’infinito. Infatti è buona cosa che sia un tempo stimato e rendicontato, cioè quantificato al cliente — che, dopo una iniziale resistenza, si rende conto che a gestirlo e contenerlo ci si guadagna entrambi.
Una minima quota da destinare agli accantonamenti per i vari rischi e imprevisti, di tanti tipi, che si corrono, sia in quanto essere umani sensibili (alle malattie, per esempio), sia in quanto indipendenti senza garanzie, tutele, rappresentanze e casse previdenziali dedicate.
Nel compenso deve essere incluso anche un po’ di accantonamento per le ferie, il riposo, la liquidazione. Se poi volessimo garantirci almeno una o mezza mensilità in più, sarebbe lecito? In un mondo ideale sì.
Fondamentale la possibilità ogni tanto di svagarsi e ritemprarsi, riossigenare il cervello, rigenerare la creatività — per contrastare in ogni modo l’affanno da criceto sulla ruota, quello per cui se non lavori anche la sera, il sabato e magari un pezzo della domenica non ce la fai. Dunque guai a considerare un ciclo continuo h24: non solo è illusorio, ma è controproducente. E se il cliente mi chiede un’urgenza o intacca la mia agenda in modo imprevisto, la prestazione deve costare di più.
Poi dovrebbe essere incluso il giusto profitto, quello che consente di reinvestire ogni anno nella propria attività e magari in altre degne di rispetto, senza per forza affidarsi alle multinazionali della finanza, esautorati di qualsiasi potere contrattuale (questo mese ho ricevuto da due banche distinte due comunicazioni per modifiche unilaterali del contratto, ever heard?), e magari con la meravigliosa possibilità di esercitare più controllo sulla destinazione dei capitali investiti. Un piccolo budget per erogazioni liberali. Tempo dedicato a cause sociali e meritorie, fosse anche occuparsi dei propri parenti anziani (altrimenti noi, che non abbiamo i permessi, come facciamo?).
Inoltre, nel formulare e chiedere la tariffa corretta, è implicitamente inclusa la possibilità di riconoscere il giusto compenso a chi a nostra volta ce lo chiede, meritandoselo, senza dover rinunciare ai suoi servizi o peggio senza doverlo strozzare in una trattativa che metta in dubbio la sua capacità di formulare il prezzo in modo legittimo e onesto. In questo modo, si contrasta anche il circolo vizioso del dumping delle tariffe al ribasso. Last but not least: un piccolo quid da destinare alla costruzione del proprio progetto di vita.
Ora vuoi fare un po’ di calcolo? Ecco i miei riferimenti.
Il primo debito che ho è con Dario Banfi, di cui ho apprezzato molto a suo tempo la ricerca Lavorare a che prezzo? Il valore del lavoro intellettuale. Successivamente ha tenuto diversi i corsi in Acta – L’associazione dei freelance, anche insieme ad altri docenti (trovi qui le slide). Molto utile anche confrontarsi con il capitolo Lavorare a che prezzo? contenuto in S. Bologna – D. Banfi, Vita da freelance. I lavoratori della conoscenza e il loro futuro, Feltrinelli, Milano 2011, pp. 159ss.
Per applicare subito dei modelli quantitativi e non solo, mi sono stati decisamente utili due speech del Freelance camp 2014, appuntamento a cadenza annuale molto utile in generale per l’autocoscienza del professionista o microimprenditore:
• Mafe de Baggis, Come farsi pagare a consuntivo e non a forfait (in cui si esprime bene il concetto che «il nemico del freelance è il micromanagement», che però rappresenta il 70% del suo tempo lavorativo)
• Alessandra Farabegoli, I conti della libera serva.
Su C+B, la testata dedicata alle creative freelance, ci sono diversi articoli utili alla formazione del prezzo; si può iniziare a tirare il filo da qui: Barbara Pederzini, Il prezzo della creatività.
Ultimamente ho seguito un corso tenuto da Marco Brambilla, da cui ho tratto indicazioni teoriche e pratiche molto utili nel ménage quotidiano: Stime, preventivi, negoziazioni.
Prossimamente approccerò il libro di Francesca Marano, Chi ha paura del business plan?, e ho già individuato una serie di fonti anglosassoni di Smart price strategies dedicate al mio settore, quello dei cosiddetti knowledge workers.
3 Commenti
stefano preto
ReplyArticolo davvero interessante e utile. Per paradosso sarebbe “simpatico” promuovere una causa contro un committente che, per esempio, imponesse un compenso chiaramente troppo basso. Ho esperienza e conoscenza di tariffe che, fatti i minimi conti, portano ad un guadagno zero o meno e non credo di essere l’unico. In ogni caso credo sia importante e dirompente un discorso pubblico su compensi, tariffe, tempi di pagamento effettivi, eccetera.
Alessandro
ReplySì, forza, immagino quanti lavori si possono prendere, per dire, da un committente americano, sventolandogli sotto il naso un trattato sull'”equo compenso”…