Quali sono le differenze tra lavoro subordinato e freelance?
17 Giugno 2020 Lavoro, Prontuario Redacta
In linea generale, non è detto che il primo sia migliore del secondo (o viceversa): anche per questo è utile capire quali sono i diversi presupposti alla base e perché è importante mantenere distinti i due ambiti di competenza.
Differenze di base
La differenza fondamentale riguarda il tipo di rapporto professionale che lega chi lavora da dipendente a un datore di lavoro e chi lavora come freelance ai propri clienti.
I rapporti di lavoro subordinato sono regolati da un contratto a tempo indeterminato o a termine (generalmente definito dal Contratto Collettivo Nazionale Lavoro di riferimento), che impone a entrambe le parti una serie di doveri e diritti.
Chi lavora come freelance, invece, non ha un datore di lavoro a cui rispondere, ma ha più committenti – i “clienti” – con cui instaura diversi rapporti di collaborazione; la collaborazione può essere continuativa o occasionale e i suoi termini vengono stabiliti a volte da un contratto di collaborazione o, più tipicamente per il settore editoriale, da una lettera d’incarico (o addirittura da una telefonata… prassi a cui sarebbe bene sottrarsi, o eventualmente accompagnarla a una mail riepilogativa).
In due parole, lavoratori e lavoratrici dipendenti fanno parte dell’organico dell’azienda e quindi hanno:
- un contratto di assunzione;
- orari e sede di lavoro fissi o comunque concordati;
- imposte e contributi previdenziali pagati in parte come trattenuta sulla busta paga, in parte direttamente dal datore di lavoro.
Invece chi lavora da freelance è tecnicamente fornitore dell’azienda. L’accordo si baserà perciò su presupposti diversi:
- un contratto di collaborazione o lettera d’incarico;
- orario e sede di lavoro scelti in autonomia;
- imposte e contributi previdenziali a carico dei freelance a partita IVA, da calcolare in base al regime fiscale scelto.
Liberi professionisti in editoria: partite IVA, ma non solo
Ci sono poi diverse tipologie di lavoro freelance.
La più tipica è quella a partita IVA, ma ci sono anche altre due possibilità:
- per prestazioni occasionali (la cosiddetta ritenuta d’acconto) il pagamento avviene con l’emissione di una notula, vengono imputate solo le imposte (l’IRPEF) se non si superano i 5000 euro (altrimenti si pagano anche i contributi). Questa modalità si può usare solo per lavori realmente occasionali (che durano pochi giorni). In sede di dichiarazione di redditi, nel caso in cui si guadagni molto poco è possibile recuperare le imposte versate;
- nel caso di lavoro creativo è inoltre possibile la cessione dei diritti d’autore, senza alcuna limitazione di reddito; un notevole svantaggio di questa formula è però l’impossibilità di accedere alle tutele previste dalla Gestione separata Inps o dalle casse previdenziali private, come pensione, malattia e maternità.
Un corollario: cosa sono le “finte partite IVA”
Tipicamente i professionisti freelance lavorano per più case editrici e/o studi editoriali. Tuttavia, dalle indagini condotte da Acta, è emerso che alcuni editori fanno ampio ricorso a partite IVA monocommitente, spesso chiamate “finte partite IVA”.
Ciò si verifica quando chi collabora da esterno con una casa editrice ha gli stessi obblighi di un lavoratore dipendente, in particolare riguardo a sede e orario di lavoro, ma non può godere delle medesime tutele assistenziali e previdenziali.
Oltre al committente unico, gli indicatori sono:
- la costanza mensile dei pagamenti;
- la richiesta di presenza quotidiana presso la sede aziendale e il rispetto di orari fissi;
- molti colleghi che svolgono gli stessi compiti con la stessa organizzazione del lavoro;
- assenza di autonomia nella definizione di obiettivi, luoghi, tempi e compensi non pattuiti ma stabiliti.
Se ti riconosci in uno o più di questi indicatori, potresti rientrare fra le “finte partite IVA”. Se vuoi trovare una soluzione, contattaci a risponderedacta@gmail.com: insieme possiamo fare in modo che queste prassi, spesso illegali, scompaiano dal settore.