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Veloci, contemporaneamente fermi

7 Settembre 2020 Vita da freelance

Pubblichiamo una testimonianza inedita inviataci da un freelance, che ripercorre la propria esperienza di lavoratore autonomo parallelamente agli eventi storici e politici dalla fine degli anni Settanta fino al coronavirus e al confinamento.

 

Il lavoro indipendente e autonomo è il soggetto vivo del sistema di produzione culturale. Nato ben prima di quanto venga raccontato, funziona ancora oggi come modello di flessibilità alimentando il lavoro sommerso, soprattutto digitale, chiamato anche ‘servizio umano’. Se le tecnologie ne hanno modificato lo statuto, velocità e tempo restano le sue coordinate. E i lavoratori autonomi del nuovo millennio sono poveri ma felici, esattamente come quelli che li hanno preceduti. 

Fine anni Settanta, primi anni Ottanta del secolo passato: comincerebbe lì, in quel frangente, questo racconto. Se non fosse che, per dirla tutta e bene, occorre come spesso accade fare un passo indietro. Per questo abbiamo a disposizione una macchina del tempo.

Dagli anni Ottanta riavvolgiamo il nastro tornando ai decenni precedenti: cominciando dal tardo dopoguerra, per capirci; dove si intravede l’avvio di un esperimento sociale, che dura in forma ben più ‘sottile’ ancora oggi, destinato a marcare il destino del lavoro nella produzione culturale. È sull’onda di una forte spinta della ricostruzione postbellica, dei salari, del profitto e dell’offerta di nuovi beni promessi dalla neonata pubblicità – un agio diffuso mai visto prima – che proliferarono nuovi bisogni di consumo ‘indotto’ e cambiarono le abitudini di spesa della nascente classe media, uscita dalle miserie della guerra. Se le abitazioni subirono le trasformazioni più visibili, con nuove ‘macchine’ domestiche come frigoriferi, cucine ‘americane’, giradischi e cineprese amatoriali; se le persone cambiarono abitudini alimentari, modi di vestire e di viaggiare con auto di proprietà, il quadro si completa solo aggiungendovi la nascita dell’emergente nuova industria culturale (televisione, cinema internazionale, libri ed enciclopedie, dischi). Aperta al mondo, è proprio la produzione culturale il paradigma che ci porterà ai nostri giorni. Io sono nato nel 1954, l’anno delle prime trasmissioni televisive.

Ora possiamo fare un altro salto con la macchina del tempo: atterriamo al finire degli anni Sessanta e poi via via percorreremo i Settanta. Nel ’68 ho quattordici anni: sono un ragazzino che legge voracemente quel poco che c’è per lui: Diabolik, il neonato Linus, Lovecraft e Poe, e va al cinema a veder di tutto senza nemmeno scegliere. Appartengo a quei figli nati dopo la guerra e cresciuti nel boom, che hanno meno di vent’anni e scalpitano come puledri. Si arriverà ben presto alla contestazione del modello di vita dei padri, che avevano peraltro appena raggiunto un risultato; e sarà un dito puntato contro la società ‘consumista’. I figli sono pronti a ‘uccidere’ i padri, che non capiranno mai tanta ingenerosità. Ma non sarà proprio così, in realtà nessuno ucciderà nessuno. Qualcuno si farà del male ma sarà soprattutto un cambio di passo verso un futuro a colori cangianti, più che una rivoluzione cruenta. Sarà più flower che power.

Saranno proprio questi figli a far compiere un détour al consumo e a innovare il mercato, a reiventarlo, diventando i più accaniti fautori di nuovi stili di vita che si tradurranno ben presto in merci, tutte pensate ad hoc per loro, e saranno soprattutto merci culturali. Jeans, viaggi e chitarra, un perfetto stereotipo, inizialmente a costo zero o quasi, diverranno ben presto il campo seminale di una nuova industria, che va dalla musica alle prime edizioni economiche di romanzi e saggi, spesso provenienti dall’estero e tradotti per la prima volta, fino alla moda ‘alternativa’. Creare e possedere andranno a sovrapporsi, e formeranno un nuovo pubblico attivo, felice, e un po’ ideologico. Io sono tra questi figli, appartengo a questa generazione, introduco nei miei primi consumi l’acquisto dei pochi vinili d’importazione e cerco di leggere saggi che fatico a capire. E questa nuova condizione è privata e collettiva insieme, fatta di scambi e consigli, fatta apposta per i miei coetanei. Questo non vale per tutti, come spesso accade; solo una parte di noi l’anticiperà. È però una buona fotografia di gruppo, virata come le Ektachrome di allora, ed è il ragionamento solo abbozzato da cui partire per capire quel che è successo dopo.

E planiamo veloci dentro i Settanta: che per me passano lenti all’insegna dell’improbabile, tra greco, latino e letture dei giornali in classe, i primi viaggi in autostop e poi l’università e l’India, gli amici che vanno e vengono.

Non posso però dimenticare. L’apparente serenità di quegli anni sarà turbata da molti angeli rovinosamente caduti dal cielo. Dall’oro al piombo. Si metteranno a far la guerra e a farla pagare agli altri – nessuno escluso – pagando anch’essi una pena pesante. Da mettere paura: sul campo morti e feriti, e se ne portano ancora i segni. Anche se molti resteranno estranei – ma è un “non detto” che ha criminalizzato tutti. E in quegli anni  l’industria culturale è in difficoltà. L’infelicità è nera e la paura non produce cultura.

È in questi anni bifronti che si comincia a trovar lavoro. Non è poi così difficile e le occasioni non mancano. Ormai lontani da quel movimento collettivo che ci faceva sentire un corpo, iniziamo a pensarci soli e all’attacco, e i sogni non sono più condivisibili. L’industria culturale aveva già costruito una macchina quasi perfetta, un catalogo specializzato. Si comincia così quando l’ego la vince, con una sensazione di poter avere tutto, perché è a disposizione; basta pagare. Lavorare è anche l’inizio di una nuova stagione della vita. Per me, come per tanti, coinciderà con una parola nuova: il mio lavoro sarà ‘artistico’ (poi lo chiameranno ‘creativo’). Cosa che non vale per tutti ovviamente, e lo ripeto: molti faranno altri lavori, soprattutto dipendenti, altri si perderanno. Ma noi ingenui e visionari, questo nuovo lavoro lo vediamo già. Ci si immagina così, insomma; e immaginarsi non è poco.

Tutto, o quasi, quadra: il lavoro ‘creativo’ e i consumi culturali andranno presto a sovrapporsi. Chi è ‘creativo’ produrrà merce ‘creativa’. E il cerchio si va a chiudere; come generazione (ma forse non vale più l’anagrafe, perché è confusa) siamo, se non al centro, dentro la cerchia di chi produce cultura: siamo gli assistenti ai produttori delle nuove merci culturali. Il cerchio si chiuderà in realtà anni dopo, quando alcuni diventeranno professionisti. Nel frattempo chi ha scelto questo lavoro dovrà spendere un bel po’ di tempo per emergere, e non tutti ce la faranno (oppure si metteranno a fare altro). Ma chi resiste passerà qualche anno a lavorare per altri più vecchi e scafati, a fare esperienza in piccoli o grandi studi dove vige un’unica regola: lavorare sì, e a tempo pienissimo, come volontari di una presunta impresa eccezionale, ma attenzione: compensi bassi e nessuna garanzia. Lavoratori sommersi, letteralmente. In quel momento assistiamo all’avvio di un fenomeno che conosciamo bene anche oggi: tanti hanno scelto, volenti o nolenti, il lavoro autonomo, che è perlopiù un rapporto di dipendenza camuffato, e così si son dovuti prendere un numero, e restare senza contribuzione a lungo, in balìa di un mercato del lavoro che già allora iniziava a sregolarsi. È in questi anni che l’esercito di giovani professionisti mascherati si infittisce, aumenta a dismisura e diventa mano d’opera dei nuovi imprenditori dei progetti culturali. Questo è quel che successe, ed è questo che ci vede ancora oggi ‘creativi’, nella stessa condizione e in crescita continua. Perché quella merce culturale, scoperta da una generazione, continuerà a riprodursi e a trasformarsi, passando il testimone alla forma successiva. E i nuovi professionisti riproporranno lo stesso schema relazionale con i nuovi giovani in entrata.

Dovremo arrivare agli Ottanta, fino ai Novanta inoltrati, per vederne gli effetti. Il meccanismo è oliato, e tutto ha funzionato a meraviglia. Il mercato è letteralmente invaso di nuovi prodotti sorprendenti: musica e videoclip diventano un simbolo del tempo; i videogiochi un altro, gli effetti speciali nel cinema un altro ancora. L’incertezza del decennio precedente sembra passata, e c’è un’allegria un po’ folle in giro. Il consumismo nel frattempo non esiste più, o meglio non è più parola in uso: perché le merci sono diventate ‘buone’. Anzi sono diventate il Bene.

Comincia qui un processo inarrestabile che non prevede più la critica del tempo, la esautora invece. Si dice che è ‘bene’ stare al passo, è ‘bene’ leggere l’ultimo romanzo, è ‘bene’ andare ai concerti, vestirsi di nero, è ‘bene’ fare fotografie, magari digitali, è ‘bene’ seguire Steve e le sue macchine, controllare sempre l’andamento del mercato culturale e poi dotarsi di tutte quelle novità benefiche, soprattutto le tecnologie in arrivo da oltreoceano. Il prezioso Walkman, ad esempio, che cambierà ben presto la fruizione della musica: dalla cassetta al cd, al file mp3. E il cellulare ne sarà l’esito. Siamo ancora agli albori del fenomeno, è vero, ma tutto si tiene. E il seguito sarà, appunto, solo un seguito di questo: alimenterà stili di vita diversi tra loro e le persone li interpreteranno. Perché è venuto il momento della specializzazione: a ciascuno il prodotto che lo veste.

In questi anni, accedendo al nuovo millennio, si inaugura il nuovo paradigma culturale che rinnova e supera i passaggi precedenti: il progresso tecnologico viene definitivamente accolto come presenza del futuro già nell’oggi. La tecnologia stessa diviene “bene primario” e ha un senso efficace e non più solo marginale, non è il presente del futuro, ne è solo un salto di stato. Che non è spaziale ma temporale, un salto che schiaccia il tempo come una macchina che lo perfora avanti e indietro. «Quando una nuova tecnologia riduce lo spazio fisico provoca una compressione istantanea della percezione del tempo condiviso, come il primo uomo che mise piede sulla luna determinò un’accelerazione delle aspettative sul futuro», leggo e trascrivo Benedetto Vecchi da Il Manifesto, perché è una definizione perfetta. L’accelerazione è tale, nella produzione di oggetti ‘culturali’ che tutto appare qui e ora. E nessuno si accorge del passaggio; è una variazione infatti. Né passato né futuro. Noi, quelli cresciuti nei Sessanta per intenderci, siamo stati parte attiva all’inizio del processo quanto lo sono oggi i nuovi ‘creativi’, inconsapevoli coreuti che partecipano inconsapevoli al definitivo occultamento delle merci culturali.

La macchina del tempo va veloce: d’improvviso, senza che me ne sia accorto, sono già qui, sbucato nel presente. Il salto temporale è stato davvero istantaneo e impercettibile. Erano i Sessanta poco fa: siamo veloci, contemporaneamente fermi. Oggi è il 29 luglio 2019.

Nota a margine

Se il 98,6% degli italiani è alfabetizzato, il 30% della popolazione tra i 25 e i 65 anni è analfabeta strumentale o di ritorno, con limitazioni gravi nella comprensione, nella lettura e nel calcolo. Così si evince da un’indagine dell’Istituto Carlo Cattaneo per Fondazione Feltrinelli pubblicata nel marzo 2019. L’Italia è tra i paesi più arretrati su scala globale.

di Mauro Panzeri

licenza CC4.0

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