Il contratto dei rider non è un esempio per tutto il lavoro autonomo
È stato siglato un importante contratto che prevede l’inquadramento dei rider come dipendenti della logistica e conseguentemente stabilisce il diritto a compensi dignitosi, welfare, assicurazione e altri corollari. Un contratto che prevede la possibilità di impegni ridotti (10 ore settimanali) e che quindi può essere utilizzato anche da chi lo fa come secondo lavoro o come lavoretto durante gli studi, e allo stesso tempo pone un massimo (48 ore la settimana) per salvaguardare la sicurezza dei rider e di tutti i cittadini.
Just Eat ne beneficerà con un ritorno di immagine (meglio questo tipo di iniziativa dei tanti bilanci sociali, spesso di dubbia affidabilità) e con la possibilità di organizzare meglio la propria attività, perché il rider nelle ore di lavoro dovranno accettare le consegne.
È certamente una conquista dei rider che in questi anni hanno saputo organizzarsi e far sentire la propria voce e che permette loro di uscire da una situazione insostenibile, esito di un processo estremo di outsourcing che sfrutta il lavoro autonomo per mascherare condizioni di grave sfruttamento.
Il contratto da lavoro dipendente era l’unico modo per garantire tutele e compensi?
Forse no. Si poteva intervenire sui compensi e stabilire dei minimi adeguati, lasciando il rapporto di lavoro autonomo. Ma non è detto che sarebbe stato meglio o forse neppure possibile (violazione del diritto alla concorrenza?).
Probabilmente la soluzione adottata è la migliore possibile. Si tratta di un lavoro esclusivamente esecutivo che rappresenta il core business dell’impresa e il carattere di autonomia era rinvenibile esclusivamente nella possibilità di accettare o meno una consegna (pur con le penalizzazioni che ciò comportava sulle successive chiamate). Più una scusa per giustificare l’assenza del contratto di subordinazione che una caratteristica sostanziale.
In ogni caso un’autonomia a cui ora dovranno rinunciare, non tutti ne saranno contenti, ma la maggioranza, soprattutto chi vive di questo lavoro, ne avrà grande vantaggio.
Tutto bene, ma c’è un grande rischio.
Il rischio è che ancora una volta si ribadisca un concetto che in Italia (e non solo) sembra essere scolpito nella pietra: “il lavoro per avere tutele e regole deve essere dipendente”.
Un’idea che potrebbe essere rafforzata proprio per l’eco mediatica della vicenda rider, troppo spesso considerata emblematica dei “nuovi lavori” e come tale oggetto di ricerche e dibattiti che hanno coinvolto giuslavoristi, sociologi ed economisti.
Il grande equivoco è che il lavoro dei rider non è un nuovo lavoro. É un lavoro tradizionale, con una nuova modalità di coordinamento.
Non è pensabile usare la stessa strada per regolare la gran parte del lavoro professionale di consulenza a imprese e pubbliche amministrazioni, che sia o meno intermediato da piattaforme.
Un mondo che ha urgente bisogno di diritti e compensi dignitosi, mantenendo la sua autonomia.