Il magico mondo del precariato audiovisivo – Parte II
19 Febbraio 2024 Compensi, Dal mondo, Lavoro, Traduzioni tecniche, Vita da freelance
Come vengono gestiti i progetti di traduzione audiovisiva dalle grandi agenzie che si occupano di sottotitoli?
Ovvero, riprendiamo da dove eravamo rimasti.
Le lingue ponte
Il fenomeno Squid Game ha anche fatto emergere un’altra falla del settore, oltre a quelle elencate nella prima parte di questo articolo: l’uso delle lingue ponte. O dovremmo dire della lingua ponte, visto che tutte le traduzioni passano attraverso l’inglese.
Teoricamente la lingua ponte dovrebbe servire solo in casi estremi, quando si trattano lingue poco diffuse: è difficile trovare traduttori professionisti birmani che parlino quechua. In pratica, nel mondo dello streaming si usa quasi sempre anche per lingue diffuse e anche quando chi traduce parla la lingua originale. In italiano si passa dall’inglese anche per lo spagnolo e il francese.
I vantaggi economici per l’azienda intermediaria sono enormi: una volta ottenuto il testo in inglese, tradurlo nelle altre lingue è economico e veloce, perché ci sono molti traduttori.
I problemi di questo approccio, però, sono evidenti:
- qualsiasi errore presente nell’inglese viene ripetuto a cascata in tutte le altre lingue;
- la versione tradotta è meno fedele all’originale, perché ha subito due livelli di interpretazione e adattamento. Ogni lingua ha le proprie caratteristiche e richiede adattamenti e accorgimenti diversi in fase di traduzione.
Pensiamo all’uso del “vous” (formale) e “tu” (informale) in francese: in inglese queste differenze spariscono, ma in italiano sono necessarie e significative (il “lei” può esprimere freddezza, distanza, può essere usato in pubblico da due persone che vogliono far credere di non conoscersi…). O pensiamo all’adattamento di un piatto giapponese come gli onigiri, delle polpette di riso che nella versione inglese dei Pokemon sono diventate “jelly donuts”. Chissà cosa sarebbero diventate in italiano partendo da questa base.
Intelligenza artificiale: alleata o avversaria?
L’uso dell’inglese come lingua ponte è anche legato a un’altra pratica: la traduzione automatica neurale. Una volta ottenuto il testo in inglese, infatti, è più facile darlo in pasto alla macchina per farlo tradurre nelle altre lingue. L’uso della IA è un’altra pratica in cui le dichiarazioni ufficiali e le pratiche di alcune aziende di localizzazione divergono.
Ufficialmente, l’intelligenza artificiale serve a eliminare le parti ripetitive e ad aiutare i traduttori a concentrarsi sugli elementi creativi del loro lavoro. Le aziende serie offrono la possibilità di usarla a questo scopo senza modifiche alle tariffe. La parte importante del lavoro (rielaborazione, adattamento, creatività) resta infatti la stessa.
Per alcuni colossi dell’audiovisivo, però, questa è una scusa per pagare meno i traduttori. Le loro ragioni si basano su motivazioni puramente numeriche, cioè sulla percentuale di testo modificato. Se il 60% del testo non viene modificato, chi traduce avrà fatto il 60% del lavoro in meno, no? Peccato che quel 60% vada comunque controllato. L’IA non distingue tra “you” singolare e plurale, maschile e femminile, formale e informale (sei bravo/a – siete bravi/e – è bravo/a). Per i traduttori esperti e rapidi a digitare, queste minime e tediose correzioni portano via lo stesso tempo che digitare la frase corretta da zero. Altro che eliminare le parti ripetitive del lavoro! Non solo: il 40% che viene riformulato contiene frasi complesse, espressioni idiomatiche, citazioni, giochi di parole o allusioni che richiedono molto più tempo.
Per giustificare le tariffe ridotte, uno dei soliti colossi chiede ai traduttori di modificare solo gli errori “gravi”. Ovviamente non fornisce alcuna linea guida su cosa costituisca un errore “grave”, ma le tariffe non incentivano a fare grandi cambiamenti. Il principio guida non scritto è: ”Basta che si capisca”. Pazienza se poi il traduttore deve metterci la faccia e il nome dopo i titoli di coda.
Le modifiche minime servono anche a un altro scopo: educare la macchina. Così l’azienda, al costo di un paio di noccioline, localizza una serie e, allo stesso tempo, istruisce la propria IA, nutrendola però di pessimi esempi. Così si crea una spirale al ribasso nella qualità.
Qualità, questa sconosciuta
Grazie a questi metodi, non c’è da stupirsi che i sottotitoli delle piattaforme di streaming godano di pessima reputazione. Ormai il pubblico è abituato e indifferente: con i sottotitoli “bisogna accontentarsi”. Nessuno protesta: né chi realizza i prodotti audiovisivi, né chi li consuma pagando (a parte qualche caso isolato). Così le aziende possono continuare con la politica del “basta che si capisca” e portare avanti i loro programmi di traduzione automatica. Un approccio del genere, al momento, sarebbe inammissibile in letteratura: nessun autore o lettore accetterebbe delle opere tradotte con l’IA.
E non è ancora finita. Leggi anche l’ultima parte.