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Un’altra storia working class

20 Dicembre 2022 Eventi, Lavoro, Vita da freelance

Il 3 dicembre Redacta è tornata alla libreria Calusca/Cox18 di Milano, la sede del primo Carta/Lotta, per un incontro con Alberto Sebastiani e Alberto Prunetti. Si è parlato di immaginari, differenze di classe e lotte nel mondo dei libri. Di seguito riportiamo il nostro intervento, qui potete ascoltare il dibattito completo.

Buongiorno, mi chiamo S. e vorrei prima di tutto ringraziare per essere qui con voi a parlare di temi che ci accomunano tutti. Oggi parlo a nome di Redacta, che però, a proposito di narrazioni plurali, è fatta di molte più persone e molto più valenti di me, e spero di poterle rappresentare dignitosamente.

Redacta è nata nel 2019 dall’iniziativa di alcuni soci e socie Acta come inchiesta sulle condizioni di lavoro nel settore dell’editoria libraria. Negli ultimi anni ha lavorato per promuovere azioni collettive che agissero sui problemi di cui soffrono i lavoratori e le lavoratrici freelance – e non solo – in questo settore: l’isolamento, la frammentazione, una bassa remunerazione a fronte invece di intensità di lavoro e qualifiche elevate. Vado avanti veloce su questo perché credo che molti nel pubblico ci conoscano, e quelli che non ci conoscono sono i benvenuti alle nostre riunioni, che vengono organizzate a Milano ma anche Torino, Bologna e così via.

Io sono arrivata a Redacta dopo qualche anno in cui avevo provato a introdurmi nel mondo editoriale partendo da una condizione che potremmo senz’altro definire di “working class”. 

Mio padre era un metalmeccanico, si occupava di vetroresina, e in quella provincia così lontana da Milano l’impegno e il lavoro sembravano bastare a mantenerci a galla e a farmi pensare che avremmo potuto avere una vita diversa dalla sua, lui che pure si era diplomato ma poi era comunque finito in fabbrica perché bisognava fare la spesa e pagare le bollette.

Ma è quando ho cominciato a pensare che avrei potuto lavorare con i libri che ho capito che, in assenza di capitale economico o culturale – e io non avevo nessuno dei due –, la buona volontà e il duro lavoro non sarebbero bastati. Oggettivamente, però, non devo averlo capito poi così bene o comunque non a sufficienza, perché ho pensato che avrei potuto acquisire quel capitale culturale per esempio frequentando un master: corsi di perfezionamento come ce ne sono tanti, che scambiano agganci e contatti con un cospicuo capitale economico. E qui già iniziano i problemi. Ma non avevo neanche cominciato a immaginare quali, perché nel master che ho frequentato mi hanno detto tutto tranne quello che avrei davvero dovuto sapere: che da lì in poi sarebbe cominciata una girandola di stage, sottopagati o addirittura non pagati, che si sarebbero prolungati con vari escamotage, che in seguito avrei aperto partita iva per fare spesso un lavoro da dipendente puro, entrando in un campo in cui gli editori ci avrebbero messo in competizione in un continuo gioco al ribasso, che non avrei visto un vero contratto per molto tempo, che per mantenermi a Milano sarei stata costretta ad accettare più lavoro di quanto avrei potuto gestirne, col risultato che lavoravo un minimo di dieci, se non dodici ore al giorno, sabato e domenica compresi.

La mia situazione, però, non è in alcun senso unica o straordinaria: in un sondaggio condotto da Redacta fra il 2019 e il 2020, a cui hanno risposto oltre 300 persone, è emerso che a lavorare nell’editoria sono soprattutto donne, residenti al Nord, con una formazione scolastica di livello molto alto e che in circa la metà dei casi lavorano senza alcun tipo di contratto o lettera di incarico. La maggior parte dichiara di lavorare dalle 25 alle 55 ore settimanali, eppure i redditi non riflettono questo impegno.

Solo il 20% riesce, dopo sei anni di lavoro, a superare i 25.000 euro lordi, ma resta un traguardo davvero per pochi. La maggior parte ha un reddito inferiore ai 15.000, anche una volta consolidata la professione.

Guardando ai tempi di pagamento, solo nel 30% dei casi sono concordati alla consegna o entro i 30 gg d.f.f.m., mentre per un altro bel 27% possono arrivare fino a 180 giorni. E, in ogni caso, questi accordi sono rispettati solo due volte su tre.

È evidente che in questo scenario sopravvive, sul lungo periodo, solo chi può permetterselo. Chi può permettersi di non essere pagato affatto o di non essere pagato per mesi. E quando dico mesi, intendo veramente mesi: queste dinamiche sono così radicate nel sistema che spesso e volentieri chi ci appartiene nemmeno se ne accorge. Un’amica e collega di Redacta mi ha raccontato per esempio che accordandosi una volta per un lavoro, il suo committente le ha spiegato che il pagamento sarebbe avvenuto, se andava bene, dopo tre mesi dall’emissione della fattura. Niente di speciale, insomma: lei si stava accordando per consegnare dopo qualche settimana un lavoro che, se andava bene, le sarebbe stato pagato in un’altra stagione.

Quando ho finalmente capito l’ingiustizia sostanziale del sistema è subentrata la rabbia, ma insieme alla rabbia anche la consapevolezza che l’unica cosa che potevo fare, e l’unica cosa che in questa situazione finiva per portare sostegno e conforto, era rivolgermi ai compagni e alle compagne: di stage, di lavori sottopagati, di partita iva.

Persone che si trovavano nella stessa situazione, sole e isolate, messe in competizione, spesso omertose. E lì ho capito che poteva cominciare un’altra storia, una storia diversa, che partiva certo da un conflitto, perché se non c’è conflitto non esiste narrazione possibile, ma che poteva trovare un modo diverso di raccontare il settore in cui tutti lavoriamo.

Una narrazione plurale, prima di tutto: ed è per questo che nel corso degli anni Redacta ha incontrato sindacati, lavoratori, come quelli della Gkn nella fabbrica di Campi Bisenzio, ha organizzato eventi come Carta/Lotta. Qui alla Calusca abbiamo incontrato i lavoratori e le lavoratrici della Città del Libro di Stradella, loro avevano appena concluso uno sciopero vittorioso, noi eravamo nel pieno dell’azione collettiva contro il Saggiatore. Ma in questi anni abbiamo aperto un confronto con tutte le persone che lavorano lungo la filiera, dalla logistica alle librerie, per provare a tenere insieme, e qui cito, «inchiesta e assemblee, facchini e ghostwriter, dipendenti mancate e editor in crisi di nervi».

Una narrazione che accenda la luce sul lavoro che facciamo: potremmo dire, parafrasando liberamente un’abusatissima frase di Joseph Conrad, che ci aiuti a capire “Come faccio a spiegare a mia madre che quando leggo un libro io sto lavorando”. E che in secondo luogo si occupi dei problemi più urgenti e scottanti della nostra situazione.
La nostra lotta prende le mosse dall’esigenza che il nostro lavoro venga riconosciuto, nella sua esistenza e nella sua importanza, lungo tutta la filiera e che, conseguentemente, le nostre condizioni di lavoro siano dignitose: e questo significa farsi pagare, e dignitosamente. Ma significa anche uscire dal meccanismo del lavoro aspirazionale che – nei termini attuali – finisce per essere non un lavoro, piuttosto un modo per autodefinirsi o, nel caso peggiore, un hobby.

Anzitutto, maggiore trasparenza: il nome di tutti i professionisti e le professioniste che hanno partecipato alla creazione del libro dovrebbe essere per legge inserito nel colophon, come attualmente è previsto solo per chi traduce e chi illustra. E per le situazioni in cui il nome della figura autoriale non può comparire, come nel caso dei ghostwriter, deve essere prevista una remunerazione aggiuntiva. O ci piace davvero così tanto questo sistema basato sulla cooptazione e il clientelismo?

C’è il rischio che in questo modo anche una correzione di bozze venga pagata in visibilità? Speriamo di no. Ma se prendiamo come esempio gli autori e le autrici, non c’è spazio per troppo ottimismo: non solo spesso non si interessano a cosa accade nella filiera o a chi lavora i libri (che pure anche loro sono pagati pochissimo per scrivere), ma soprattutto non parlano mai di soldi.

Non parlare mai di soldi è un modo per mantenere lo status quo. I compensi forse non sono una livella assoluta, ma al momento sono la livella migliore che abbiamo. 

Non smettere mai di parlare di soldi, sempre e comunque, significa dunque parlare di compensi dignitosi e tempi di pagamento.

Per quanto riguarda i compensi, sappiamo tutti che capire quanto farsi pagare in editoria per un freelance – ma non solo – è sempre difficile. Per questo il tema  è stato uno dei punti del sondaggio del 2019 di cui sopra: le risposte ricevute ci hanno consentito, oltre a mappare – parzialmente – l’esistente, di elaborare uno strumento che ci permettesse di calcolare dei compensi che abbiamo chiamato dignitosi. Si tratta di uno strumento usato anche dalla Low Pay Commission britannica e che tiene conto delle variabili del tempo e della velocità di produzione, prendendo come riferimento i minimi salariali del Ccnl dei grafici-editoriali. Per darvi un’idea, con questo calcolo un compenso dignitoso per la correzione bozze di una cartella di testo si aggira intorno ai 2€, quando sappiamo tutti bene che là fuori la cifra fa spesso fatica ad arrivare a 1€… [Presto arriverà un aggiornamento dei nostri compensi dignitosi a cartella, nel frattempo abbiamo pubblicato i nostri compensi dignitosi orari. N.d.R.]

Se per quanto riguarda i compensi queste cifre potranno sembrare “nuove”, per quanto riguarda i tempi di pagamento quello che ci limitiamo a ricordare è che i pagamenti secondo lo Statuto del lavoro autonomo dovrebbero avvenire a 30 giorni dall’emissione della fattura; è possibile arrivare a 60 giorni solo in presenza di un accordo scritto fra le parti. Inutile dire che, nella maggior parte dei casi, l’accordo è spesso unilaterale e nemmeno esplicitato. Questa diffusa illegalità, semplicemente, non ci pare ammissibile, ed è per questo che Redacta offre anche un servizio di affiancamento legale per l’applicazione della legge.
Senza dimenticare che “soldi” vuol dire sempre e comunque anche “stage”, ovvero il lavoro gratuito che fa diventare l’ingresso nel mondo editoriale una specie di far west dove sopravvive solo chi può permettersi di non essere pagato per più tempo.

E, a proposito di chi in questo settore in qualche modo riesce a sopravvivere, un’ultima osservazione la rivolgerei al passo del volume di Alberto Prunetti, Non è un pranzo di gala, dove si avanza l’ipotesi che il nuovo interesse verso le storie working class derivi da una progressiva proletarizzazione della “classe editoriale”: non sottovaluterei in questo senso il peso del mercato. Naturalmente, è un cane che si morde la coda: se le storie non arrivano al pubblico, il pubblico non potrà mai appassionarsi a queste storie. A me piacerebbe piuttosto leggere la situazione attuale come una presa di coscienza, un momento in cui finalmente abbiamo deciso di denunciare le nostre origini e i nostri problemi: è vero che spesso la sensazione è di essere l’unica persona working class nella stanza, ma è anche vero che a volte le altre persone che sono come noi, nella nostra stessa stanza, hanno solo bisogno di una parola o di un esempio per smettere di vergognarsi e unirsi alla lotta.

Redacta

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di Redacta tempo di lettura: 7 min
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