Associarsi per vivere meglio
15 Dicembre 2010 Lavoro
Nell’ultimo numero della rivista una città (n° 179 di novembre), Sergio Bologna e Anna Soru, intervistati da Barbara Bertoncin, spiegano le ragioni che hanno portato a scrivere il “Manifesto dei lavoratori autonomi”.
Barbara. Avete stilato il “Manifesto dei lavoratori autonomi di seconda generazione”. Chi sono questi lavoratori? L’espressione “lavoratori della conoscenza” è ormai abbastanza usata, ma resta un po’ oscura. Chi sono?
Sergio. Elencare tutte le figure professionali che sono apparse sul mercato sarebbe troppo lungo; vediamo piuttosto i settori: la formazione, l’informatica, la consulenza di organizzazione, la grafica, l’editoria, il giornalismo, gli eventi (fiere, manifestazioni, congressi, mostre, concerti), il turismo, la cinematografia, la finanza, il brokeraggio, l’immobiliare, la pubblicità, la comunicazione, il design, le ricerche di mercato e tanti altri. Si pensi soltanto alla varietà di figure presenti nell’informatica, dal programmatore al web designer, dallo specialista di reti aziendali allo specialista di e-commerce. Oppure alla consulenza, a quello che viene chiamato il lavoro di expertise, dove ci sono decine di specializzazioni diverse, dall’assistenza alle decisioni del management a quella per i gradi elevati della Pubblica Amministrazione, dalla logistica alla programmazione delle vendite, dalle ricerche per i progetti europei ai progetti di cooperazione internazionale. Quando queste attività vengono svolte da persone singole, da lavoratori indipendenti, per conto di aziende o Pubbliche Amministrazioni, o per conto di Agenzie che lavorano per imprese private o P.A. come intermediarie, noi diciamo che si costituisce un universo del lavoro autonomo di seconda generazione.
Barbara. Mi è piaciuto il pezzo che dice che “è bello lavorare contando solo sulle proprie competenze, la propria iniziativa, la propria capacità di tessere relazioni, di comunicare – senza patrimoni alle spalle, senza appartenere a consorterie, senza dover piegare la schiena”. Ricorre il “desiderio di libertà e di indipendenza”…
Sergio. Più che di desiderio si tratta di una scelta che è stata fatta per tante ragioni, magari perché si è stati licenziati da un’azienda e quindi si è stati costretti ad inventarsi un modo per sopravvivere. La maggioranza dei nostri soci però è costituita da persone che hanno fatto questa scelta perché ritenevano di potersela cavare da soli invece di spedire in giro curricula e stare a casa ad aspettare che qualcuno li chiamasse a lavorare. In genere, nelle esperienze di ciascuno di noi, è difficile distinguere nettamente il peso oggettivo delle circostanze dall’importanza della scelta soggettiva. C’è una forte commistione delle due cose. E poi c’è sempre il caso, l’incontro con qualcuno. Oppure il trasferimento in un’altra città. Più che desiderio di libertà c’è la consapevolezza che la libertà va difesa ogni giorno, con compromessi evidentemente. Forse è più la fiducia in se stessi che il desiderio di libertà a determinare certe scelte. L’afflato “libertario”, quello era tipico della generazione Anni 70, poi si è andato affievolendo.
Barbara. Problema del mancato inquadramento del lavoro professionale indipendente degli autonomi di seconda generazione nel diritto del lavoro. Lavoro a “prestazione”, intermittente…
Anna. Il nostro diritto del lavoro riguarda solo il lavoro dipendente.
Questo pone due problemi:
- Da una parte non siamo considerati lavoratori ma intermediari di servizi e quindi non abbiamo adeguate tutele nei confronti dei committenti, benché sia evidente l’asimmetria contrattuale. Non siamo tutelati se il committente non paga o se paga in ritardo, non siamo tutelati se il committente fallisce, non siamo tutelati se le condizioni contrattuali sono condizioni capestro. Le politiche pubbliche dell’ultimo decennio sono andate nella direzione del massimo ribasso, determinando un fortissimo abbassamento dei compensi soprattutto per gli anelli terminali delle catene di subforniture, spesso professionisti autonomi.
- Non solo tutto il nostro diritto del lavoro non si è adeguato al fatto che esiste una nuova categoria di lavoratori, ma sembra tuttora incapace di adeguarsi, dal momento che coloro che si occupano di creare nuove regole (sindacalisti, giuslavoristi, legislatori, quasi sempre ex sindacalisti o giuslavoristi) si sono formati nel mondo del lavoro dipendente e faticano a concepire nuovi diritti senza ricondurci agli schemi da loro conosciuti. Le misure proposte e realizzate sino ad ora non sono mai andate oltre l’innalzamento dei contributi previdenziali al fine di raggiungere una parificazione con quelli dei dipendenti ed evitare un uso imposto delle forme di lavoro autonomo. Insomma, il legislatore interviene per cercare di evitare le “false partite iva “, non curandosi del fatto che sta rendendo difficile la sopravvivenza delle vere partite iva (senza impedire gli abusi) e senza costruire un sistema di welfare per lavoratori che ormai (tra contributi e fisco) pagano quanto i dipendenti, ma non hanno tutele.
Barbara. L’amara constatazione che l’unico filo che lega l’individuo all’istituzione è quello della fiscalità, “l’unico momento in cui il cittadino si trova di fronte qualcosa che si chiama stato”. La centralità della questione del carico fiscale.
Sergio. In effetti dove sta lo Stato nella vita quotidiana del lavoratore autonomo? Quando si lavora per la Pubblica Amministrazione lo Stato è il committente, come dire il padrone, che talvolta può pagare peggio e talvolta meglio del privato, ma in genere paga più tardi. Altrimenti quand’è che il lavoratore autonomo incontra lo Stato nell’esercizio della sua professione? Quando deve pagare le tasse e quando deve versare i contributi all’INPS. Non stiamo parlando dei servizi di base, come istruzione e sanità, di cui qualunque residente, anche non cittadino italiano, può usufruire. Stiamo parlando di qualcosa che rende il lavoratore autonomo un soggetto che in situazioni particolari può contare sul sostegno dello Stato. Un esempio: i pagamenti. E’ abbastanza noto che un lavoratore autonomo, in particolare nel settore dei servizi tecnico-intellettuali, è costretto spesso ad accettare incarichi “sulla parola”, cioè senza un contratto scritto. Se alla fine del lavoro il cliente non lo paga può ricorrere alla giustizia, certo, ma è un procedimento lento e costoso, che richiederebbe comunque l’onere della prova da parte sua, non essendoci un pezzo di carta firmato. Ma anche nel caso di un contratto formalmente sottoscritto può accadere, più spesso di quanto si creda, che il cliente non paghi, soprattutto dopo lo scoppio della crisi del 2008. Teoricamente il lavoratore potrebbe aprire un contenzioso, ma tempi e modi della giustizia civile in Italia sono tali da scoraggiare il lavoratore autonomo a ricorrere al giudice. Questa sensazione, di essere in fin dei conti abbandonati a se stessi alla mercè del più forte o di quello che non rispetta la regole, è una sensazione molto comune nei lavoratori autonomi. Si dirà: ma qualunque piccola impresa è soggetta a questi rischi. E’ vero, ma non sarebbe una ragione in più per istituire delle procedure più rapide e soprattutto meno costose per ottenere il riconoscimento di un diritto? Ora si parla di arbitrato nelle cause di lavoro, sempre con lo sguardo rivolto al modello del lavoro dipendente, ma sotto questo profilo, quello di fare un lavoro e di non venir pagato, il gruppo sociale più a rischio è quello dei lavoratori autonomi.
Barbara. Che impatto ha avuto la crisi sui lavoratori autonomi, anche rispetto alla presa di coscienza?
Sergio. Dipende molto dai settori e dall’attività del singolo. L’impatto c’è stato sulle occasioni di lavoro, che sono diminuite ed in alcuni comparti quasi scomparse del tutto, costringendo certe persone letteralmente a cambiare mestiere. Ma l’aspetto più generale e maggiormente avvertito è quello dei pagamenti. Il lavoro lo trovi ma poi non ti pagano o ti pagano solo una parte del compenso o ti pagano in ritardo. Nel frattempo tu devi campare o mantenere una famiglia, pagare gli anticipi dell’IVA, pagare le bollette (poiché il lavoro di relazione e contatti è molto intenso, anzi, in periodi di magra, ancora più intenso, micidiali sono le bollette telefoniche). E poi magari, se la commessa che ti hanno affidato richiede molti spostamenti, devi pagarti i viaggi o anticiparne il costo in vista di un rimborso a babbo morto. Devi avere per forza una riserva di liquidità, un piccolo “capitale di giro” che ti permette di respirare. La maggioranza dei lavoratori autonomi con più committenti, alla fine dell’anno mette in conto che qualche fattura non sarà mai pagata, magari perché il cliente è fallito. Un altro aspetto è il dimezzamento di certe fasce di compenso. Sono spesso lavori, quelli cosiddetti “di conoscenza”, che vengono sostituiti dalle nuove tecnologie. Quindi la crisi ha inciso in maniera molto pesante. Possiamo dire che da quel momento è cominciata una “presa di coscienza”? Se s’intende con questo una maggiore chiarezza sulla propria condizione, le idee chiare le avevano tutti sin dall’inizio sul forte squilibrio nei confronti del committente. Il problema era che sul mercato mancava un’offerta di soluzioni organizzative di tipo sindacale, in modo da poter fare il passo successivo alla “presa di coscienza”, quello di coalizzarsi, di fare fronte. Oggi le cose stanno cambiando, forse anche per merito di ACTA, ma molto lentamente purtroppo.
Barbara. Parlate di un’ “antropologia” del lavoratore autonomo. Potete spiegare?
Anna. Siamo considerati un’anomalia, una deviazione rispetto al lavoro normale (anche la Comunità Europea continua a fare riferimento al lavoro a tempo indeterminato come normale rapporto di lavoro). Da una parte siamo considerati il risultato transitorio e da superare di una trasformazione del mercato, dall’altra non si accetta che il lavoro in autonomia possa rispondere a esigenze di flessibilità anche del lavoratore. Pochi si sono soffermati sul cercare di capire le nostre motivazioni, le nostre condizioni, il nostro rapporto con il mercato e le nostre esigenze. Per questo abbiamo dedicato tutta la prima parte del Manifesto a spiegare chi siamo, un passaggio fondamentale anche per poter definire le nostre strategie, la direzione che vogliamo seguire.
Barbara. E come si gioca il rapporto tra rivendicazione dell’autonomia e richiesta di tutele?
Anna. L’autonomia non è in antitesi con le tutele. Attualmente sosteniamo i costi di un welfare pesante da cui siamo sostanzialmente esclusi, dato che non ci riconosce la malattia, l’infortunio, la disoccupazione e ci prospetta pensioni da fame.
Rivendichiamo un sistema di tutele che sia svincolato dalla condizione lavorativa. Chiediamo di sostituire la tutela del posto di lavoro con la tutela del lavoro, di accettare la flessibilità, ma intervenire per renderla sostenibile.
Barbara. Il vecchio artigiano in qualche modo era padrone quasi completamente del suo “ciclo produttivo”. Il lavoratore della conoscenza si deve integrare per forza con altri?
Sergio. Più che altro dovremmo intenderci su questo termine di “artigiano”. Certo, ci sono ancora degli artigiani che hanno “bottega” e se ne stanno lì come il ciabattino delle favole. Dobbiamo renderci conto invece che esiste un artigianato moderno, di seconda o terza generazione, che si evolve a seconda della domanda, ed assomiglia moltissimo al lavoratore della conoscenza, la differenza è che in genere questo tipo di artigiano deve essere dotato di macchinari e tecnologie talvolta sofisticate che richiedono investimenti di capitale e di manutenzione, oltre che forza lavoro qualificata. Il lavoratore indipendente spesso ha come unico capitale le sue competenze. E’ del tutto fuorviante pensare all’artigianato come qualcosa che appartiene alla vecchia rivoluzione industriale o al mondo pre-industriale. In genere appartiene a sistemi a rete, la sua autonomia può essere assai limitata, per esempio se è un “terzista”. Il lavoratore indipendente si trova in situazioni simili, in molti settori è semplicemente il prodotto di esternalizzazioni, né più né meno che un “terzista”. Il problema dell’integrazione ha due facce: c’è l’integrazione in un sistema complesso (azienda, Pubblica Amministrazione) che è semplicemente il mercato del lavoro, quindi un dato oggettivo, e l’integrazione che l’individuo costruisce per trovare sostegno e relazioni di fiducia, cioè nasce dalla sua iniziativa. Per i lavoratori autonomi questo secondo tipo di integrazione può sostituire quella che ai lavoratori salariati offre lo Stato. Insomma lo Stato moderno è pensato per offrire inclusione sociale solo al lavoro dipendente. Il lavoratore autonomo deve per forza crearsi un proprio ambito d’integrazione e inclusione sociale. La rete di relazioni che riesce a stabilire è il suo piccolo welfare. Per questo noi diciamo che partecipare a iniziative associative come la nostra è importante per vivere meglio.
Barbara. Qual è il rapporto coi sindacati?
Anna. Quando siamo nati tutti i principali sindacati avevano una sezione per occuparsi del lavoro non dipendente o “atipico”, in quanto deviazione rispetto al lavoro tradizionalmente inteso. Acta è nata perché non ci riconoscevamo in questa impostazione di “dipendenti mancati” .
Recentemente i sindacati, e in particolare CISL e CGIL, hanno dedicato una nuova attenzione al nostro mondo, creando nuove sezioni al loro interno specificamente dirette al lavoro autonomo professionale. Non ci è ancora chiaro se ciò risponda esclusivamente ad un’esigenza di mercato (gli iscritti tradizionali calano, occorre trovare nuovi target) o se ci sia la reale consapevolezza di aver troppo a lungo ignorato una parte importante del mondo del lavoro.
In questi anni ci siamo frequentemente confrontati con esponenti sindacali, ma tante volte ci viene il sospetto che si rivolgano a noi in cerca di idee e per meglio arrivare ai professionisti, ma con l’obiettivo di riportarci sotto la loro ala. Paternalisticamente ci spiegano che loro accedono ai tavoli di lavoro, sono parte sociale, quindi possono aiutarci…
Un’impostazione che non ci piace e che ci piace ancora meno quando constatiamo che le loro proposte sono sempre le stesse, di aumento dei nostri contributi previdenziali.
Barbara. Qual è il programma che vi siete prefissi, in particolare se potete approfondire la questione previdenziale (anche fornendo dei dati su quello che ritenete un trattamento vessatorio e sugli scenari relativi alle pensioni).
Anna. Versiamo il 26% del nostro reddito per garantirci una pensione futura. Proiezioni che abbiamo fatto ci dicono che la pensione che riceveremo sarà veramente misera e che molti di noi non arriveranno alla pensione sociale. Siamo convinti che l’obiettivo di una pensione equa e adeguata potrà essere raggiunto solo attraverso interventi che vadano lungo tre direzioni:
- il miglioramento del rapporto tra prestazioni e esborsi: i coefficienti attuali sono molto bassi, inferiori a quanto potrebbe essere garantito dal mercato, e sono previsti ulteriori diminuzioni in collegamento con l’aumento dell’età media;
- l’effettiva garanzia del mantenimento del potere d’acquisto di quanto versato (i tassi di rivalutazione sono ancorati all’andamento del PIL, il cui andamento non era brillante già prima della crisi);
- la revisione del sistema di welfare per assicurare una copertura pensionistica, oltre che lavorativa, nei periodi di non lavoro, legati a maternità, malattie o disoccupazione.
E alla base di tutto ci deve poi essere una politica che favorisca la valorizzazione del lavoro autonomo professionale, necessario alla creazione di valore e all’uscita dalla crisi attuale.