Lavoro autonomo sì, ma quale lavoro autonomo?
3 Dicembre 2019 Lavoro
Pubblichiamo il testo dell’intervento di Sergio Bologna a un seminario sul lavoro autonomo tenutosi a Verona il 27 novembre 2019.
Lavoro autonomo sì, ma quale lavoro autonomo?
Questa è la prima domanda alla quale dobbiamo dare una risposta.
Nell’ultimo mezzo secolo e anche oltre, dal dopoguerra in poi, il lavoro autonomo statisticamente consistente era concentrato in quella parte della popolazione che viveva nel mondo agricolo, nel piccolo commercio e nei trasporti, in misura minore era concentrato nelle professioni intellettuali. Era un mondo molto presente nelle attività artigianali, quindi per sua natura aveva una connotazione di classe non ben definita, tra il proletariato e la piccola borghesia e forme di rappresentanza che nel linguaggio della sinistra erano considerate “corporative”. Il gruppo di professioni intellettuali, in particolare quelle protette da Ordini professionali riconosciuti dallo Stato, era invece considerato un po’ la quintessenza della natura borghese, con dei suoi valori ben definiti e una funzione sussidiaria rispetto al ruolo dello Stato.
Il lavoro autonomo quindi da sempre è stato un universo composito e contraddittorio al suo interno, che ha subito i contraccolpi dello sviluppo capitalistico in forma diversa dal mondo del lavoro salariato, ma non per questo con conseguenze meno significative.
La riduzione dell’incidenza dell’agricoltura nei paesi industrializzati, la diffusione della grande distribuzione, possono essere citati come due fenomeni, anzi come due tendenze storiche, che hanno inciso fortemente sulla consistenza della componente agricola e commerciale del lavoro autonomo. Si è trattato di fenomeni macroscopici che non sono sfuggiti né all’attenzione dei sociologi né a quella degli economisti, degli storici e dei politologi.
Minore attenzione è stata dedicata invece alle trasformazioni nel mondo delle professioni intellettuali, che invece avrebbero meritato un’osservazione più precisa se non altro perché riguardavano sia il lavoro autonomo che il lavoro salariato e le loro reciproche relazioni. Ossia, quello che avveniva nel mondo delle professioni, pur riguardando una componente minoritaria del lavoro autonomo, metteva meglio in evidenza le problematiche che lo sviluppo capitalistico stava portando alla luce in maniera prepotente, nel periodo di ascesa e declino del fordismo.
Che cos’è una professione?
Forse la disciplina che meglio ha colto questo aspetto è stata la sociologia delle professioni, un ramo poco frequentato tra quelli in cui si articolano le discipline sociologiche. Tra i grandi interrogativi ai quali la sociologia delle professioni ha dovuto rispondere vi è proprio questo: cos’è una professione? Quando un’attività può essere definita “professione”? Problema che si era posto sin dagli Anni Venti del secolo scorso e che ritroviamo tale e quale – per esempio – nelle discussioni all’interno delle Commissioni Parlamentari, quando si è trattato di approvare la legge 4 del 14 gennaio 2013.
Questo interrogativo ha portato immediatamente alla luce un primo aspetto, estremamente complesso, della questione, quello dell’etica. Si pensi alla professione medica, a quella forense, a quella dell’informazione, si pensi – tanto per citare un caso attuale – ai problemi di coscienza di un ingegnere che può aver partecipato alla progettazione e realizzazione del MOSE nella laguna di Venezia e, spinto inizialmente dalla convinzione di salvare Venezia, si accorge invece di aver contribuito alla morte della città, alterando irrimediabilmente il regime delle maree, com’era stato chiaramente predetto da illustri idrogeografi dell’Università di Padova ed altri. Un problema di etica che si pone oggi in maniera lacerante a certi giovani che si affacciano al mercato delle professioni e debbono decidere se accettare o meno di lavorare per tariffe molto inferiori alla media. Purtroppo la maggioranza sembra non porsi nemmeno questo problema.
Per questa e molte altre ragioni che ora vedremo, l’attenzione che è stata posta negli ultimi anni al lavoro autonomo si è concentrata quasi esclusivamente sul mondo delle professioni tecnico-intellettuali e si è felicemente, direi, intrecciata con l’esperienza e l’analisi della crisi della middle class. Anche per questo la figura del lavoratore autonomo ha assunto un che di paradigmatico rispetto alle trasformazioni del mondo presente.
Le competenze e lo sviluppo delle tecnologie
Venendo ai nostri giorni, si pensi alla dimensione epocale che assume il problema delle competenze professionali di fronte allo sviluppo dell’intelligenza artificiale e all’affermarsi di quello che viene chiamato “il capitalismo delle piattaforme”. Come l’automazione e la robotizzazione si sono gradualmente sostituite al lavoro manuale, le potenzialità dei dispositivi informatici che s‘inscrivono nelle tecnologie governate dall’intelligenza artificiale, tendono a sostituirsi e a espropriare il soggetto delle sue caratteristiche cognitive. Ne è un esempio illuminante in questi giorni la vertenza aperta a Milano da un gruppo d’insegnanti della multinazionale Wall Street English. Avendo la scuola introdotto sempre più massicciamente sistemi didattici fondati su piattaforme interattive, ha cominciato a classificare come tutor gli insegnanti, disconoscendo il loro ruolo di docenti e riducendoli ad addetti-macchina, a manovratori di software. Pur essendo questa una lotta di persone assunte con contratto di lavoro subordinato e tutelate da un contratto di lavoro sottoscritto dalle maggiori organizzazioni sindacali, che in parte appoggiano questa vertenza, il problema dell’espropriazione delle competenze si pone per loro quanto per un lavoratore autonomo delle professioni tecnico-intellettuali.
Potremmo proprio iniziare dalle nuove tecnologie per mettere a fuoco le problematiche del lavoro autonomo che hanno interessato negli ultimi vent’anni la trasformazione dei professionisti. L’uso del personal computer e di Internet ha significato per il lavoro intellettuale indipendente una svolta epocale agli inizi degli Anni 90. L’accesso al mercato senza intermediari, l’accesso all’informazione, la possibilità di lavorare in remoto, la possibilità di usare spazi domestici come ufficio, la possibilità di risparmiare sul costo delle comunicazioni ecc., hanno dato un grande impulso all’autonomia e all’autosufficienza, requisiti indispensabili all’esercizio del lavoro autonomo. Coincide con questo salto tecnologico l’emergere delle professioni non regolamentate, delle cosiddette “nuove professioni”, come figure idealtipiche del lavoro autonomo, espressione di quella nuova “borghesia dei talenti” che nell’immaginario stava sostituendo le professioni ordinistiche, considerate eredi dell’Ottocento e pertanto in ritardo rispetto alla modernizzazione. Noi siamo stati in grado di cogliere questo passaggio e abbiamo coniato il termine “lavoratori autonomi di seconda generazione”.
Non abbiamo invece colto con sufficiente anticipo la tendenza secondo la quale il modello del lavoro indipendente, del self-employment, stava sempre più modificando la forma del lavoro subordinato. Le imprese chiedevano ai loro dipendenti di essere autonomi, di assumersi responsabilità, di essere competitivi coi colleghi; alcune grosse organizzazioni favorivano flessibilità di orari, lavoro a domicilio, con la possibilità di lavorare in remoto. Insomma, la forma salariata di lavoro cercava di assomigliare sempre più alla forma indipendente, considerata più produttiva ed anche più soddisfacente per il soggetto.
All’irrompere di tecnologie abilitanti ha corrisposto tra i freelance la diffusione di un’ideologia individualistica esasperata che, se all’inizio ha contribuito a creare quel clima di euforia proprio di chi si sente all’avanguardia del suo tempo, si sarebbe negli anni successivi trasformata in fattore di resistenza alla coalizione e quindi di handicap. L’individualismo, connaturato all’ideologia della competizione a tutti i costi, predicata ai quattro venti dai sacerdoti del neoliberalismo, se ha creato una generazione estremamente aggressiva nei suoi comportamenti sul mercato nei pochi anni dello slancio postfordista, ha poi creato un generale smarrimento negli anni della crisi del 2008/2009, quando l’esigenza di tutela e di protezione esigeva una disponibilità alla coalizione.
Abbiamo visto nel giro di due generazioni the rise and fall di una figura paradigmatica, le cui modalità lavorative sono estremamente compatibili con l’apparato tecnologico vigente ma si rivelano invece fragili e insidiose di fronte alle fluttuazioni del mercato, che mettono comunque in difficoltà tutte le figure e le entità che non sono dotate di reti di protezione.
Come se non bastasse l’ideologia individualista, creava confusione nel singolo l’idea di essere una forma d’impresa, quindi di non appartenere all’universo simbolico del lavoro. Quando questa idea è stata accettata e formalizzata dalla normativa europea, l’adesione a forme di coalizione che potevano creare reti di protezione minimali, veniva ad essere incompatibile con la normativa antitrust, in quanto assimilate al cartello d’imprese.
I cambiamenti più recenti
Cosa è cambiato oggi rispetto alla figura che abbiamo chiamato “lavoratore autonomo di seconda generazione”? Innanzitutto abbiamo assistito a un progressivo degrado delle condizioni economiche, come se questa figura, considerata vincente nel postfordismo Anni 90, fosse oggi quella che ha più pagato l’irrompere della crisi del 2008/2009. Dalle indagini condotte da ACTA a livello europeo assieme ad alcuni istituti universitari emergono una serie di elementi, che non erano presenti nel medesimo universo sociale trent’anni fa, quali:
- una fortissima polarizzazione tra una relativamente ristretta minoranza di professionisti che mantengono una forza sul mercato e sono in grado di dettare le condizioni della loro prestazione e una massa crescente di lavoratori autonomi delle professioni tecnico-intellettuali che trovano sempre maggiore difficoltà a raggiungere redditi in grado di garantire loro un tenore di vita di piccolo-media borghesia; questo fenomeno si riscontra in particolare nelle grandi aree metropolitane
- una tendenza a superare le difficoltà sul mercato acquisendo competenze diverse dalla professione di riferimento, sia inglobando competenze affini che consentono di offrire non un segmento di servizi ma un pacchetto integrale di servizi, sia praticando mercati differenti o transitando da una specializzazione professionale a un’altra
- una maggiore mobilità tra situazioni lavorative diverse, passando da contratti di lavoro subordinato a posizioni di lavoro autonomo, da prestazioni occasionali a lavori intermittenti
- una maggiore consapevolezza di essere svantaggiati rispetto al lavoro dipendente sul piano delle prestazioni assistenziali e previdenziali
- una maggiore disponibilità a trovare forme di coalizione sindacale o a cercare di ricorrere ai servizi di organizzazioni di rappresentanza.
Interrogati su quali ritengono possano essere le cause del degrado del lavoro autonomo, le risposte dei freelance ruotano attorno a cinque problematiche:
- la contrazione generale del mercato dopo il 2008
- la concorrenza tra professionisti sempre più aspra
- la richiesta di prestazioni gratuite o a compensi irrisori da parte delle pubbliche amministrazioni
- la svalorizzazione delle competenze e dei valori reputazionali di fronte all’imperativo del prezzo
- in alcuni settori (es. l’editoria, l’audiovisivo) gli effetti delle innovazioni tecnologiche.
Il lavoro autonomo tecnico-intellettuale, considerato un tipo di attività riservata alla fascia alta del mercato del lavoro, continuazione dello spirito e dello status borghese delle antiche professioni ordinistiche, zoccolo duro della middle class in piena corrispondenza “d’amorosi sensi” con le nuove tecnologie, si ritrova oggi invece a entrare ed uscire dalla gig economy in quella situazione d’incertezza nella quale si dibatte buona parte della popolazione dei paesi avanzati.
Come contrastare la competizione e l’individualismo
Com’è stato possibile contrastare in parte le tendenze disgregatrici dell’individualismo e della competizione a tutti i costi? Se penso alla mia esperienza e a quella di molti colleghi di ACTA, la risposta a questa domanda risiede in un complesso di fattori di natura essenzialmente culturale.
Potremmo dire che negli anni 80/90 si sono contrapposte due diverse “narrazioni” riguardanti l’emergere nel campo sociale di forme di nuovo lavoro autonomo, una – indubbiamente maggioritaria – che ne attribuiva la crescita alla liberalizzazione e alla deregolamentazione post-reaganiana e post-tatcheriana, un’altra – che si era diffusa in particolare in Germania – che ne attribuiva l’origine a tendenze post-sessantottesche, a tendenze radicali di matrice anarchica. La prima s’iscriveva in una visione “di destra”, l’altra in una visione “di sinistra”. La prima rappresentava il fenomeno come un rifiuto della regolazione del lavoro e invocava l’assoluta libertà delle forze del mercato come garanzia di sicurezza, l’altra considerava l’indipendenza come un modo per rifiutare l’ordine borghese del lavoro salariato, ma tenendo sempre presente il problema dello sfruttamento del lavoro all’interno del mercato.
Le prime riflessioni sul lavoro autonomo che hanno portato poi ad incrociare la nascita di associazioni di rappresentanza come ACTA o altre, hanno trovato la loro formulazione teorica in riviste prodotte dalla vecchia intellighentzia marxista e libertaria che era stata protagonista dei movimenti degli Anni 60 e 70. I primi scritti riguardanti il lavoro autonomo di seconda generazione appaiono sulla rivista “Altreragioni” nel 1991/2, testata il cui nome fu suggerito dal poeta, saggista e critico letterario Franco Fortini, che non era stato esente da simpatie maoiste.
Questa vecchia intellighentzia si sarebbe incontrata nel corso degli anni 90 con la prima generazione di “smanettoni” dei computer, con i cyberpunk, riuscendo a individuare correttamente lo stretto rapporto tra l’emergere di nuove forme di lavoro autonomo e l’immissione sul mercato di nuove tecnologie. Non è un caso che il volume collettaneo “Il lavoro autonomo di seconda generazione. Scenari del postfordismo in Italia” sia stato pubblicato in coedizione da Feltrinelli e da Shake Edizioni, la casa editrice dei testi dei cyberpunk, che organizzava nei centri sociali milanesi i primi incontri internazionali di hacker.
Fu un incontro significativo ma fuggevole nel senso che la riflessione sul nuovo lavoro autonomo avrebbe seguito poi un percorso diverso, avvicinandosi sempre più alla critica delle professioni, all’analisi dei processi cognitivi e soprattutto alla scoperta delle iniziative associative di tipo sindacale dei freelance, che si venivano manifestando soprattutto negli Stati Uniti (anche questo però retaggio dei contatti che la vecchia intellighentzia radicale aveva mantenuto sin dagli Anni 50 con l’”altra America”).
Quali sono stati i principali ostacoli che la riflessione sul nuovo lavoro autonomo ha dovuto superare? Sono stati di duplice natura. È stato già accennato all’effetto paralizzante che la normativa europea può aver esercitato sulla coalizione dei soggetti in cerca di rappresentanza e di tutela. Finché il lavoro autonomo verrà assimilato all’impresa sarà pressoché impossibile mettere in cantiere una riforma del welfare. Fortunatamente gli stati hanno evitato l’impasse con una serie di politiche riguardanti la regolamentazione del lavoro e l’invenzione di una serie di fattispecie contrattuali (soprattutto la Francia è attiva in questo senso) che hanno definito diverse tipologie di rapporto tra freelance e committenza.
In Italia però mi verrebbe da dire che l’ostacolo principale è stata la radicata convinzione che qualunque forma lavorativa non standard in ultima analisi può essere definita come una variante del lavoro salariato. In pochi paesi, credo, il peso culturale esercitato da una tradizione che considera il lavoro subordinato l’asse del diritto del lavoro, è stato così schiacciante. Il rapporto di lavoro subordinato è il presupposto al riconoscimento di un diritto al welfare. Sul piano culturale e dell’opinione comune questo ha portato le associazioni di rappresentanza, che stavano nascendo, a scontrarsi con resistenze esterne e difficoltà d’intendersi provenienti
- dal mondo sindacale
- dal mondo della ricerca sociologica
- dal mondo dell’informazione
e a doversi impegnare in una logorante opera di chiarimento riguardante i temi
- delle cosiddette “false partite IVA”
- dell’asserita evasione fiscale degli autonomi
L’attenzione dei giuslavoristi al nuovo lavoro autonomo
Invece sin dall’inizio abbiamo avuto conforto nell’attenzione prestata dai giuslavoristi alla nostra iniziativa e ai nostri discorsi.
Il discorso delle “false partite IVA” riflette un’opinione sedimentata e difficile da estirpare, secondo la quale non è pensabile una forma distinta dal rapporto di lavoro subordinato che non sia una maschera del medesimo. Così come la convinzione che lavoratore autonomo uguale microimpresa, anche questa opinione diffusa ha effetti paralizzanti sui processi associativi perché inficia la constituency del freelance come figura con una propria inconfondibile identità in quanto soggetto sociale.
Definire uno spazio nel quale il lavoro autonomo possa essere riconosciuto come identità specifica, per nulla assomigliante al lavoro subordinato se non nell’asimmetria del rapporto di forza economico con il committente, è stato l’esercizio più complesso che le teorie del lavoro autonomo di seconda generazione si sono trovate a compiere per confutare il principio – insito nel rapporto definito dal contratto d’opera – che le due controparti sono uguali, sono sullo stesso piano. Un esercizio che richiedeva abilità di equilibristi per muoversi sul filo dell’asimmetria. Si trattava di invocare un principio tipico del lavoro subordinato – lo squilibrio di potere tra datore di lavoro e lavoratore – per poter affermare la nostra separazione dal lavoro subordinato.
Procedendo in questo modo però, si riusciva anche a dare una risposta all’interrogativo: che forma associativa doveva avere la rappresentanza dei freelance? Le forme che ci trovavamo davanti erano sostanzialmente due: la forma Ordine professionale e la forma associazione professionale. Esclusa la prima, non ci restava che concepire la nostra organizzazione come una coalizione di associazioni professionali, cioè un’organizzazione a forma di ombrella sotto la quale si riunivano i traduttori organizzati in associazione (o gilda) dei traduttori, i web designer organizzati in associazione dei web designer, i formatori organizzati in associazione dei formatori, i pubblicitari, i tecnici del suono e così via. Una galassia di associazioni afferenti a un unico tetto (Dachverband alla tedesca o Umbrella organization all’anglosassone). La soluzione si è profilata all’orizzonte quando abbiamo capito che dovevamo organizzare non una o più professioni ma una condizione professionale.
Non è la stessa cosa organizzare un’associazione professionale o una condizione professionale, perché nel primo caso si tratta di circoscrivere un perimetro di mercato, nel secondo caso si tratta di individuare forme di relazione sociale, di comportamenti quotidiani e così via, cioè elementi che attengono alla sfera socio-antropologica e che accomunano persone esercitanti professioni diverse in modo da poterle rendere consapevoli di appartenere a una comunità e di riconoscere facilmente cosa le rende simili le une alle altre. Passo necessario a renderle consapevoli dei comuni interessi. In questo modo ci è stato possibile individuare più chiaramente qual è il ruolo di un’associazione professionale tradizionale e di rispondere alla domanda se essa è compatibile con l’organizzazione di tipo sindacale che rappresenta trasversalmente diverse professioni oppure no. La risposta è stata positiva, infatti ACTA ammette la doppia affiliazione. Per ragioni pratiche poi la comune appartenenza l’abbiamo individuata nella posizione fiscale e ci siamo chiamati “quelli della Partita Iva”, ma questa denominazione non rende giustizia alla complessità del ragionamento con il quale abbiamo creato una coscienza di gruppo o di ceto.
Nel prosieguo della nostra esperienza, quando abbiamo cominciato a guardarci attorno e a frequentare le associazioni di altri paesi ci siamo accorti quanto forte sia la somiglianza della condizione di freelance nei diversi territori nazionali, malgrado le forti differenze normative, economiche e culturali. E siamo arrivati alla conclusione che forse le diverse tipologie contrattuali che sono state man mano inventate dal legislatore non sono varianti del modello lavoro subordinato, ma varianti del modello lavoro autonomo.
In questo contesto è bene fare una precisazione. Procedendo nei ragionamenti come s’è detto, abbiamo evitato di farci inglobare dall’universo simbolico del precariato. Il precario è una non-identità. Esso ha come riferimento la subordinazione, cioè la soppressione di sé come identità precaria. L’intermittenza lavorativa, la non stabilità, la necessità di rinnovare ogni giorno il proprio rapporto con il mercato e la propria reputazione, l’esigenza reale di un lifelong learning, fanno del lavoratore autonomo un precario strutturale, ma privo di quella tensione magnetica verso il lavoro subordinato, che rende così inconsistente l’identità precaria.
L’esperienza associativa del lavoro autonomo negli USA
Lasciamo da parte ora queste caratteristiche della nostra azione determinate da una particolare situazione nazionale e prestiamo un attimo d’attenzione alle strategie messe in atto da altre organizzazioni, in particolare dalla Freelancers Union americana, di cui ACTA è sister organization. Il tema che accomuna molte di queste realtà internazionali è quello delle tutele previdenziali e assistenziali. Di fronte a un modo “europeo” di affrontare il problema individuando come controparte la macchina statale e, prima di quella, la politica, i colleghi americani hanno scelto la strada – in un certo senso però non avevano altra scelta – di costituire una loro insurance company che offre prestazioni di carattere assistenziale, in particolare sul piano sanitario, grazie al sostegno ottenuto dalle grandi Fondazioni private, come Rockefeller, Ford ecc.. Una soluzione chiaramente improponibile in Italia, ma che aiuta a riflettere sul problema delle Casse professionali e delle mutue integrative private.
Le Casse, caratteristiche degli Ordini professionali, sono oggi anche il sintomo più evidente della crisi degli Ordini e della crisi del lavoro professionale; i giovani avvocati, architetti, medici, hanno sempre maggiori difficoltà a versare i contributi, mentre l’abbassamento dei redditi nelle professioni non regolamentate rende sempre più difficile il ricorso a mutue integrative da parte dei freelance. Il problema del reddito impatta direttamente sul problema del welfare. L’aver puntato sull’offerta di servizi, ragione del successo della FU, della sua popolarità e della fama acquistata dalla sua fondatrice Sara Horowitz, classificata alcuni anni fa come una delle 40 donne più importanti d’America, si è rivelata una strategia insufficiente quando è esplosa in tutta la sua ampiezza la piaga del wage theft, della mancata corresponsione del salario o dell’onorario da parte del datore di lavoro e/o del committente, più in generale quando la situazione di mercato dei freelance ha cominciato a peggiorare fortemente e a renderli indifesi contro gli abusi.
Da un’inchiesta tra i soci la FU ha potuto appurare che circa la metà dei freelance USA lavora senza contratto scritto. Passando dal tema assistenziale nel quale è possibile giocare la carta dei diritti civili al tema dell’asimmetria di potere nei rapporti di mercato, passando da ambiti nei quali la regolazione può fare qualcosa ad ambiti nei quali la specificità del lavoro autonomo rivela tutta la sua fragilità, le modalità d’azione della FU hanno dovuto essere ripensate. Rivelatasi impraticabile la strada dei contratti collettivi, rivelatosi impossibile un ricorso a forme di pressione sul committente analoghe a quelle storiche esercitate dal lavoro subordinato nei confronti del datore di lavoro, la FU ha provato a percorrere una strada inedita con la campagna Freelancers isn’t free, che si è conclusa con l’approvazione da parte del City Council di New York del cosiddetto Freelancers isn’t free Act entrato in vigore il 15 maggio 2017, come Local Law n. 140/2016.
In base a questa legge i freelance debbono essere pagati entro 30 giorni, il freelance che non è stato pagato o che subisce forti ritardi nei pagamenti anche se non dispone di un contratto scritto può rivolgersi all’Office of Labor Policy and Standards, il quale dopo i dovuti accertamenti invia una notifica al committente con un’ingiunzione di pagamento. Oppure il freelance può citare in giudizio il committente e avrà assistenza legale da parte dell’Amministrazione. Ciò si applica per tutti i contenziosi oltre gli 800 dollari, è passibile di sanzioni il committente che si rifiuta di redigere un contratto scritto e quelli recidivi possono subire multe fino a 25 mila dollari. Non entrano in questa normativa gli avvocati, il personale addetto alle vendite e i dipendenti dell’Amministrazione civica. Hanno diritto a questo trattamento gli autonomi senza dipendenti (sole proprietor) e le società a responsabilità limitata LLC (Limited Liability Company) che vengono tassate secondo il principio del “pass through-entity”, per il quale il reddito è imputato al singolo proprietario (alcuni stati considerano il titolare della società un self employed dal punto di vista fiscale), mentre la forma Corporate è un’entità a sé stante il cui reddito è tassato come reddito d’impresa.
Ho citato questo esempio per dire che il forte peggioramento dei redditi medi del lavoro autonomo costringe le associazioni di rappresentanza a spostarsi dal terreno finora praticato di advocacy sulle questioni fiscali e previdenziali al terreno molto più insidioso del conflitto sulle retribuzioni; l’interlocutore/controparte si sposta dal pubblico al privato e il lavoro autonomo scopre tutta la sua fragilità e la sua impotenza, non essendo in grado di colpire gli interessi del committente agendo solo sui margini consentiti dal suo ruolo di prestatore d’opera. Non può scioperare, per dirla brutalmente. Allora occorre trovare altre forme di pressione (molto usata negli USA è la pratica di attacco alla reputazione della controparte). Finché agivano sul terreno fiscale e del welfare, le associazioni dei freelance potevano vantarsi di aver raggiunto in certi casi significativi risultati e di aver dato quindi dimostrazione della loro utilità ai soci. Costrette a spostarsi su un terreno che è quello tipico delle organizzazioni sindacali del lavoro dipendente, hanno dovuto in un certo senso cominciare da capo, sperimentando forme di azione che prima non avevano mai praticato.
Quindi oggi i problemi dei freelance e il ruolo delle loro associazioni di rappresentanza si collocano in uno scenario diverso da quello d’inizio Anni 90, uno scenario nel quale la problematica del conflitto è ineludibile.
In Italia la tutela affidata solo alla subordinazione
Tornando all’Italia, sul piano del conflitto l’esempio più significativo è stato quello dei riders, un esempio illuminante per capire la dinamica delle piattaforme e per vedere all’opera una manifestazione specifica della gig economy. Ma è un esempio che dimostra ancora una volta come non siamo capaci di liberarci dall’idea che la forma del lavoro subordinato appare come l’unica tutela seria del lavoro autonomo. La sua importanza però non va sottovalutata, è stato un episodio che ha riportato in primo piano, che ha ridato attualità, a forme di contestazione collettiva dei rapporti di lavoro che sembravano scomparse. Aspettiamo ora di conoscere meglio la legge sulle piattaforme per valutarne la portata, essa è scaturita direttamente dalla lotta dei rider.
Un altro esempio di come il ceto politico italiano sia del tutto inadeguato (in particolare in certe componenti dello spettro politico di centro-sinistra) a gestire le contraddizioni della gig economy, è stata la soppressione dei voucher, in parte oggi rimpiazzati dal Libretto Famiglia e dal CPO, contratto di prestazione occasionale. I dati che emergono dai Rapporti dell’Osservatorio sul Precariato dell’INPS e dall’analisi delle comunicazioni obbligatorie, pur non comprendendo la realtà del self employment, dimostrano quanto sensibile sia il mercato del lavoro italiano alle variazioni normative, anche di piccola entità, che interessano le modalità d’uso della mano d’opera; basta una certa agevolazione fiscale per far schizzare in alto il numero dei contratti a tempo indeterminato, basta modificare il regime delle causali nel contratto di lavoro a tempo determinato e nell’interinale per vederli crollare in basso.
La norma che ha tentato d’intervenire per la prima volta sulla questione del peggioramento dei redditi del lavoro autonomo è quella relativa all’equo compenso. Su questa e su altre questioni recenti, come l’introduzione della flat tax, lascio a Cristina Zanni il compito di illustrare le azioni e gli orientamenti di ACTA.
Per parte mia vorrei concludere portando alla vostra attenzione quello che è, a mio avviso, il rischio maggiore che il lavoro autonomo corre in questo contesto storico-economico. È il rischio della svalutazione delle competenze, in parte per l’esproprio cognitivo operato dalle piattaforme, ma soprattutto a causa di una pratica diffusa di considerare la competenza e l’esperienza dei fattori ininfluenti sul prezzo della prestazione. Era già una tendenza di lungo periodo nel lavoro subordinato quella di abolire ogni elemento di misura del valore del lavoro e delle professionalità. La qualità non viene premiata, vengono premiate la flessibilità, la docilità, la disciplina, l’abnegazione. È una tendenza che incoraggia coloro, che si credono possessori di “capitale umano”, ad andare altrove, a cercare all’estero occasioni di lavoro.
Nelle professioni esercitate dai freelance questo impatta soprattutto le professioni tecnico-intellettuali, il mondo vasto della cultura e degli eventi, della comunicazione, cioè quelle attività che si concentrano maggiormente nei grandi centri metropolitani.
Una volta che si toglie al lavoratore indipendente le sue competenze, i suoi saperi, le sue conoscenze specifiche, che cosa resta? Il grande punto di domanda che lascio a voi è: in che modo la regolazione, il diritto, possono fermare tutto ciò o almeno attutire gli effetti di questo declino?